Una recensione di Sofia Todisco della Passeggiata letteraria di ‘Portici di carta – 2024’ a Torino
“Palermino, Palermino, sei più bella di Torino” dice Natalia Ginzburg alla sua famiglia, cullandosi in una finzione di malinconia, in quel calore che solo l’idea della mancanza di casa è capace di dare. Natalia cresce proprio a Torino e, vivendola, se ne innamora; ama la città, le sue vie, la sua gente, le piazze e i caotici mercati. È proprio in questa città che trascorre quasi tutta la sua esistenza; è qui che concepisce le sue opere e diventa la scrittrice che tutti noi conosciamo.
Tuttavia, Natalia nasce a Palermo, in Sicilia, luogo che, insieme alla famiglia, lascia per migrare a nord, in Piemonte, a Torino.
I fenomeni migratori accompagnano l’umanità sin dai suoi albori. L’uomo è per sua natura portato a ricercare condizioni migliori per sé stesso e per i propri figli e, per fare ciò, spesso sceglie di spostarsi, di raccogliere tutto ciò che possiede e migrare dove pensa di poter vivere la vita che desidera. Torino, grazie al suo sviluppo economico e alla possibilità di impiego nelle fabbriche, prima tra tutte la Fiat, diventa la meta di migrazioni sia dal sud dell’Italia sia dal “sud del mondo”.
Viene quindi spontaneo chiedersi: come vedono gli stranieri Torino?
Durante una passeggiata letteraria (progetto coordinato dalla professoressa Alba Andreini e ispirato al libro Una mole di parole), organizzata in occasione della manifestazione “Portici di Carta”, ho avuto l’opportunità di immergermi per qualche ora in una nuova prospettiva sulla città: quella di chi ci ha vissuto senza esserci nato, di chi ha dovuto lottare per sentirsi parte di questo luogo, e di chi, venendo da fuori, è rimasto così affascinato da renderla lo scenario di storie e opere ambientate proprio qui, a Torino.
L’itinerario della passeggiata prevedeva una decina di tappe, raccontate e guidate da Emanuela Ranucci, in San Salvario, quartiere multietnico che in sé racchiude culture, lingue e tradizioni diverse e variegate.
La partenza era all’ingresso principale della stazione di Porta Nuova, luogo di arrivo e di nuovo inizio per chi, a Torino, cercava una nuova vita. La stazione diventava, per chi vi giungeva, un vero e proprio dormitorio, l’unico luogo conosciuto e sicuro in cui alloggiare nelle ore libere dal lavoro in fabbrica. Le strade di Torino apparivano come una ragnatela, un groviglio di vie con nomi diversi e sconosciuti che si incontravano in qualche piazza e si diramavano ancora, creando sempre più confusione.
Spostandoci di qualche metro dalla stazione, siamo giunti a Palazzo Priotti, edificio in stile liberty, scenario del romanzo Via Artom di Alessandro Musto. Nella narrazione troviamo Tarik, un diciassettenne marocchino che vive a San Salvario. Attraverso la sua voce comprendiamo la difficile integrazione e la divisione tra il quartiere e il centro storico. Tarik si ferma a osservare questo palazzo bianco, ornato da stucchi, che per lui divide due mondi: da una parte gli studenti pensierosi, le belle ragazze, i giovani ben vestiti del centro; dall’altra, l’esibita rusticità di chi abita a San Salvario, la trascuratezza nel vestire, nel parlare, nell’atteggiarsi, che sembra non potersi integrare con il centro della città.
Questa marginalità, questa diffidenza e difficile integrazione, tipica di chiunque di fronte al diverso, la ritroviamo anche nelle parole di Italo Fontana, che racconta di una difficile immigrazione e delle pessime condizioni di vita di coloro che, ritrovandosi in un paese nuovo e senza più nulla, vivevano stipati nelle soffitte di via Saluzzo.
Se da una parte troviamo la diffidenza, dall’altra c’è chi non può fare altro che nutrire curiosità verso la novità. Augusto Monti parla della scuola internazionale di San Salvario, nella quale viene mandato dal padre per “fare amicizia con i morettini e capire le meraviglie dei loro paesi”.
Quando si lascia il proprio paese e si migra, ci si ritrova a convivere con una lingua diversa, una cultura a cui non si appartiene e delle tradizioni di cui non si comprende il significato. L’elemento che permette agli immigrati di ritrovare le proprie origini e ricostruire il proprio nucleo culturale è, ovviamente, la religione. Ed ecco che a San Salvario troviamo a pochi metri di distanza una sinagoga, una chiesa protestante e delle moschee.
Elena Lowenthal, in Conta le stelle, se puoi, narra dell’inaugurazione della sinagoga Petit, mentre Alessandro Musto racconta del bombardamento che, durante la seconda guerra mondiale, la colpì, distruggendo biblioteca e archivio.
A pochi metri da lì sorge il tempio valdese, chiesa protestante citata in Pretesto, romanzo di Sergio Velluto, dove l’edificio diventa un luogo in cui fare magie e permettere a un personaggio di trovare la via della guarigione.
Invece, in Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, lo scrittore algerino Amara Lakhous nomina una moschea che oggi non vediamo. Questo perché le circa 18 moschee presenti nel quartiere sono per la maggior parte nascoste, ricavate in palestre, magazzini, negozi o giardini.
Ciò che non passa inosservata è la vocazione commerciale di questo quartiere. Via Baretti, nel periodo di crisi della Fiat, si riempie di negozi, locali e ristoranti di famiglie che cercano un nuovo lavoro per mantenersi.
Fondamentale è poi il mercato, importante momento di aggregazione, confronto e scambio, che anima via Madama Cristina e la sua piazza. È proprio qui che Amara Lakhous ambienta un dialogo tra il protagonista del suo romanzo, un immigrato, e una donna che, come purtroppo accade ancora oggi, gli grida di tornare al suo paese. Eppure lui in quel paese ci è nato e cresciuto, e così risponde a tono chiedendo alla signora le sue origini. Lei risponde dicendo di venire dal sud Italia. “Ahhh,” dice allora lui, “è una terrona, io invece sono un sinto piemontese”. L’integrazione, insomma, anche nei romanzi, è a dir poco problematica.
Il percorso nel quartiere e nella letteratura si è concluso a Porta Nuova, con un racconto d’amore tratto dal romanzo La straniera di Younis Tawfik, in cui viviamo una Torino inquieta, narrata attraverso gli occhi di due amanti provenienti da culture diverse, destinati a un amore impossibile, toccante e amaro.
Così ho conosciuto un altro aspetto di questa città che prima non conoscevo: il suo essere multietnica, piena di diversità, opportunità, nuovi arrivi. Tuttavia, ho concluso la passeggiata con una domanda a cui la letteratura non ha saputo darmi risposta: sarà mai possibile una completa integrazione? Un reciproco e rispettoso riconoscimento della bellezza del diverso che caratterizza l’altro?
Sofia Todisco