Oltre la follia

Anita Mercatili, in questo brano teatrale, riscrive l’ Amleto di Shakespeare ambientandolo in un contesto contemporaneo all’interno di una seduta di psicoanalisi, che si colloca nel momento in cui Amleto si trova in uno stato di immobilità d’azione, in bilico tra l’agire per vendicare il padre o meno; realizzato nell’ottica del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura ho voluto far spiegare da Amleto stesso la sua follia e le ragioni che stanno alla sua base. Un Amleto moderno che si lascia analizzare in una seduta psicoanalitica, e che riporta i suoi monologhi sotto forma di flusso di pensiero e di racconto di un sogno rivelatore delle sue emozioni. 

*

Studio dell’analista.

Amleto suona il campanello. L’analista apre la porta invitandolo con un gesto ad entrare. Amleto entra nello studio con passo svelto, lo sguardo perso. Si siede di fronte alla scrivania.


AMLETO: Ho fatto un sogno questa notte dottore, un sogno strano, di quelli che la mattina fan rivoltare gli intestini, intendo.

PSICOANALISTA: Vuole raccontarmelo?

AMLETO: Certo, sì… Ero nella mia vecchia casa d’infanzia, non so se gliene ho mai parlato.
Era una bella casa, quella, non come questa di ora dove ogni oggetto sembra rovesciato, al posto sbagliato, quasi tradisca la posizione che gli era desinata.
Insomma, quella sì che era bella ecco, luminosa, profumata dai gigli in fiore in primavera e scaldata dal camino in inverno, candida nei colori, satura di voci.
Ero solo in salotto, mia madre mi chiamava dalla sua camera chiedendomi di aiutarla a rifare il letto.

PSICOANALISTA: Ha idea di quanti anni avesse lei nel sogno?

AMLETO: Non so, credo avessi l’età di ora. Sentivo quasi che quello in cui stavo vivendo fosse semplicemente un mondo possibile, un modo diverso in cui potevano stare le cose ecco.

PSICOANALISTA: (Prende nota su un quaderno) Prego, continui pure.

AMLETO: Insomma, salgo le scale per raggiungere mia madre, la aiuto a mettere il coprimaterasso, le lenzuola, la coperta estiva e le federe. Pieghiamo i pigiami da riporre sotto i cuscini, io quello di papà, lei il suo.
Accade, però, che io mi addormenti a terra una volta finito il lavoro e che mia madre mi lasci lì a riposare.

PSICOANALISTA: Mi perdoni la domanda, ma come mai a terra?

AMLETO: Penso sia perché il letto era stato appena rifatto, non crede? Mia madre non mi avrebbe mai permesso di disfarlo e sporcarlo dopo averne cambiato la biancheria e sistemato a dovere.

PSICOANALISTA: (Annuisce e prende nota. Fa cenno di continuare il racconto).

AMLETO: Insomma, stavo dormendo serenamente sul pavimento quando delle risa mi svegliano: non mi ero reso conto di essermi addormentato e mi alzo spaesato dai piedi del letto. Sporgendomi dal materasso vedo mia madre, vestita con l’abito delle belle occasioni, i capelli raccolti, gli occhi vispi che guardavano dallo specchio che aveva di fronte a sé l’uomo che, alle sue spalle, si occupava di allacciarle il vestito accarezzandole le braccia. Erano carezze d’amore quelle, carezze di chi era solito sfiorare la pelle dell’altro, carezze d’abitudine direi…
(Amleto si ferma un istante e fissa lo sguardo sulla soglia della porta) Il letto era sfatto…Certo, sì, io non potevo dormirci, non potevo sporcarlo, ma lui, lui sì…

PSIANALISTA: Mi scusi, ma lui chi?

AMLETO: L’uomo che accarezzava mia madre e che le sorrideva di rimando dallo specchio, ovviamente; l’uomo che si era appropriato di ciò che era mio e di ciò che non poteva essere mio, come quel letto candido appena sistemato; l’uomo che ha spostato i mobili di casa, che l’ha messa in soqquadro pur non buttando nulla.

PSICOANALISTA: Ora capisco. Lei parla di suo zio Claudio, giusto? L’uomo che sua madre ha sposato dopo la morte di suo padre, se non erro.

AMLETO: (Amleto sente a malapena le parole dell’analista, annuisce lievemente confermando la sua ipotesi) Ricordo che guardando quella scena così, ecco, intima, provai vergogna, ripugnanza, ribrezzo. Avrei voluto urlare a mia madre se davvero non pensasse più a papà, se quelle mani così simili alle sue non le risultassero comunque diverse. Spire di un serpente che la avvolgevano, ecco cosa mi sembravano quelle dita.

PSICOANALISTA: Ma lei fa qualcosa di fronte a questa scena?

AMLETO: Io, io ero pietrificato dottore, questa è la verità: lei non guardava me, non guardava mio padre, ma il suo sguardo era pieno, straripava dello stesso amore che prima era riservato esclusivamente a noi. Cosa ci facevo io lì? Sentivo non fosse più il mio posto ecco. Così me sono andato in punta di piedi lasciando che il serpente glieli mangiasse, gli occhi.
Ricordo un senso di straniamento: la casa non era più mia, non più candida, le voci divenute straniere alle mie orecchie.
Camminando per il corridoio mi imbatto nella porta socchiusa dello studio ed entro. Spalle all’ingresso, mio padre leggeva seduto alla scrivania posta di fronte alla finestra. Mi avvicino a lui per vedere quale libro stesse leggendo e noto accanto al suo braccio, in cima alla pila, il Giulio Cesare di Shakespeare…
(Amleto fa un sorriso amaro) Ah, dottore, storie di tradimenti, tradimenti ovunque le dico, io stesso ho tradito l’amore e la fiducia che il mio povero padre aveva riposto in me.

PSICOANALISTA: Non la seguo più, perché lei dovrebbe essere un traditore?

AMLETO: Perché io lo so, dottore, io lo so perché mio padre me lo ha detto in sogno e nulla, nulla sto facendo per vendicarlo!

PSICOANALISTA: Ma lei sa cosa, esattamente?

AMLETO: Che lo zio è l’assassino di mio padre, è evidente! (Amleto si alza di scatto dalla sedia) Non le ho forse già detto del Giulio Cesare? E lui, lui non mi guardava neanche, sussurrava soltanto quelle parole che ancora adesso ronzano nelle mie orecchie! (Amleto cammina per lo studio avanti e indietro, avanti e indietro imitando le parole del padre) Vendicami, Amleto…Vendicami, Amleto…
(Si ferma nel mezzo della stanza) Ah, dottore, lui mi rimproverava, è certo! Oh, quelle parole! Quelle parole sembravano accusarmi, come un pugnale nel costato si aggirano tra le mie viscere, premono alla bocca del mio stomaco, pungono i miei occhi con le lacrime. Io, sì, io, sangue del suo sangue, come ho potuto permettere che il suo letto venisse sfatto, sporcato, anche solo toccato, da chi gli ha tolto amore e vita? Come posso chiamare ancora madre la stessa donna che di lacrime per lui ben poche ne ha versate, colei che al collo ora indossa fieramente le spire di un serpente?

PSICOANALISTA: Amleto si sieda, la prego.

AMLETO: Sì, ha ragione.
(Fa un lungo respiro) Rancore e colpa, dottore, rancore e colpa mi attanagliano, questa è la verità, questo sento essere il senso del sogno.

PSICOANALISTA: Lei dice? Come mai parla di rancore?

AMLETO: L’ipocrisia, le lacrime che si fanno già sale sulle sue guance non appena un altro uomo la aiuta a legare il vestito. È possibile sia amore questo? Forse che mio padre non sia stato amato? Che io, suo figlio, non sia stato mai amato?

PSICOANALISTA: Quindi il rancore è rivolto verso sua madre. Non pensa sia per questa ragione che lei non ha dormito sul letto appena fatto seppur l’aveste aiutata?

AMLETO: Se solo avessi saputo che vi si sarebbe coricata con Claudio non l’avrei neanche aiutata, penso.

PSICOANALISTA: Si è sentito complice?

AMLETO: Ma come potrei esserlo! Semmai mi sento tradito, ingannato…

PSICOANALISTA: Pensa che sua madre l’abbia ingannata?

AMLETO: Credo non ci sia parte del suo corpo che non l’abbia fatto, dottore. Le sue braccia che cullavano il mio sonno affinché gli incubi non corrugassero mai la mia fronte, ora abbracciano un altro uomo; il ventre che mi ha nutrito, cresciuto, accolto, ora, avvelenato, corrode il cordone ombelicale; la bocca, quella stessa bocca che cantava un tempo ninna nanne, che mi baciava la fronte, è adesso baciata da altre labbra, assediata da parole che non hanno più la tenerezza di un tempo, custodiscono segreti. Gli occhi poi… gli occhi hanno perso la loro sincerità, ora vedo solo un desiderio imputridito dalla corporeità, dal peccato della sostituzione e dalla negazione dell’amore.
Ecco sì, dottore, io provo rancore per quella donna che io non riconosco più come madre.

PSICOANALISTA: Ha mai provato a parlarle?

AMLETO: Come avrei potuto vedendola scaldare per la sua prima cena con lo zio gli avanzi del rinfresco del funerale di mio padre? Come le dicevo, le lacrime erano già sale non appena iniziavano a rigare le guance. E poi, come mi rivolgo ad una donna che ormai credo di non conoscere più? Cosa dovrei dirle se neanche guardandosi allo specchio ha inorridito all’idea che altre mani potessero accarezzarle le spalle? La verità è che quel letto non ho saputo proprio difenderlo, dottore.
Povero, povero padre relegato nello studio…

PSICOANALISTA: Immagino il senso di colpa sia per suo padre.

AMLETO: Sa, lui era proprio un brav’uomo, un uomo grande le dico. Di quelli che camminano con la schiena dritta perché non vi sono pesi che spingono la sua spina dorsale verso il basso, ecco.
(Apre il portafoglio per tirare fuori una foto del padre, la porge quindi allo psicoanalista) Guardi questa foto, guardi. Lì aveva forse trent’anni, i ricci sembravano dipinti sul suo viso, il volto, giovane, era già anziano, saggio sì, ma mai stanco, lo sguardo era acceso dalla forza di chi sa che il mondo lo può abbracciare con gli occhi. Questo è un uomo, dottore, questi sono degli occhi il cui sguardo non era superfluo per il mondo. E io, io come faccio anche solo ad ergermi alla sua stessa altezza vedendo snodarsi davanti a me le spire del tradimento che come perle si avvinghiano attorno al collo di mia madre.
(Amleto fa una lunga pausa, lo sguardo rivolto verso il pavimento) Nulla, le dico, nulla ha più senso senza di lui…

PSICOANALISTA: Cosa intende?

AMLETO: Io, io mi sento così immobile, dottore. Qui, seduto, mi svuoto del mio essere e del mio fare, mentre le mie parole perdono di consistenza non appena vengono pronunciate. E la mia voce… lei si disperde in uno spazio infinito senza mai colpire con le sue onde alcun oggetto.
Dovrei alzarmi, mi dico, dovrei proprio alzarmi da qui, urlare se la mia voce non viene udita, scandire il rumore dei miei passi se il mio passaggio non viene notato. Insomma, non sono fantasma, o almeno, non ancora.
Eppure, il sonno mi seduce: che sarà mai dormire un altro po’, giusto il tempo che il maltempo si acquieti? Almeno questa pioggia la conosco, so che passerà, fra qualche giorno, qualche mese, qualche anno, non so. Ora che ci penso, potrebbe anche non cessare mai, ma sa, dottore, dovessi mai svegliarmi, mi consola l’idea di sapere già come quest’acqua bagna le mie ciglia e inumidisce i miei vestiti.
Ecco, sì, penso stia tutto nel fatto che di questo dolore mi è nota l’anatomia, che mi viene ancora concesso di sognare.

PSICOANALISTA: Mi scusi, cosa sta nel fatto che il suo dolore è noto?

AMLETO: Questo lo so per certo: la mia inattività, il mio star fermo e non saper scegliere se lasciare che la vita mi scorra addosso o compiere un qualsiasi gesto che un segno lo lasci sul serio. Ma alla fine anche quel segno lì risulterà essere un graffio, una sciocchezza, qualche tempo dopo. Quindi, sa che le dico, che almeno io mi faccia cullare da un dolore che conosco e da un sonno che preveda risveglio.

PSICOANALISTA: E non potrebbe esservi del senso nel poter sognare ancora qualcosa di diverso? E poi, Ofelia, i sentimenti che prova per lei non le restituiscono nulla?

AMLETO: Ma alla fine che importa sognare, in grande o in piccolo che sia, se siamo pulviscoli di polvere? Cosa importano i sentimenti se poi questi muoiono col corpo dell’altro, se è così facile cambiare rotta. Polvere, le dico, polvere siamo, polvere sono i sentimenti e come polvere danziamo nell’aria senza che vi sia strada già battuta che ci indichi la via della ragione. Le direi che è proprio questo il destino insostenibile del granello, ecco.

PSICOANALISTA: Un granello dice…
(prende nota sul quaderno e guarda l’orologio) La devo interrompere, purtroppo il nostro tempo si è concluso.

AMLETO: Va bene dottore, grazie, a presto.

Amleto viene accompagnato alla porta, stringe la mano dell’analista ed esce dallo studio.

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