Lettere per vincere la morte

Aurora Costa, in questo suo lavoro, immagina che nella casa di Stratford in cui William Shakespeare ha trascorso gli ultimi anni di vita giunga per corrispondenza un carteggio contenente le epistole che il noto drammaturgo aveva inviato al giovane conte di Pembroke; realizzato nell’ottica del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura cerco di presentare in una versione inedita della discussa relazione tra William Shakespeare e il suo Fair Youth, sposando la teoria che identificherebbe quest’ultimo con il conte di Pembroke”.

*

Nella primavera dell’anno 1617, mia madre Anne contrasse una forma lieve di polmonite; nulla di preoccupante ma, poiché mia sorella Susan si trovava proprio in quel periodo con i bambini in visita dai suoceri, si rese necessaria una mia permanenza presso di lei nella casa di Stratford; vi giunsi all’inizio di marzo e, su consiglio del medico, vi restai fin quasi alla fine di maggio – quando si fu del tutto ristabilita. Serbo un piacevole ricordo di quelle settimane, che furono per me come un ritorno alla gioventù prima che Hamnet morisse, quando la vita non era per noi bambini più che il fugace intermezzo tra un gioco e l’altro: ora, solo un poco più silenziosa, la casa non era diversa da quella che ci aveva visto crescere, adempiere diligentemente ai nostri studi, diventare adulti; seppellire un fratello.

In una tale atmosfera di malinconico raccoglimento, trascorsi quasi tutti i giorni ad occuparmi scrupolosamente della salute di mia madre, ormai più che sessantenne, sentendomi simile a lei che, nella nostra infanzia, con dedizione aveva curato tanti piccoli malanni; e poi a tenerle compagnia, cercando di alleggerirle il peso della solitudine che immagino l’accompagnasse da quando anche io mi ero maritata, lasciandola per conto suo.

Doveva essere un giorno dell’inizio di aprile, cessate le assidue piogge che avevano caratterizzato il mese di marzo, quando, con la posta che ricevevamo abitualmente – scarsa, dalla morte di mio padre – pervenne a casa nostra un involto sconosciuto che, non recando mittente, conteneva un fitto carteggio in cui potei riconoscere subito la sua grafia. Ci trovavamo, in quei giorni, prossimi all’anniversario della scomparsa: si può pertanto intuire il mio stupore, e al tempo stesso la mia commozione, nel realizzare che un benefattore sconosciuto aveva deciso di omaggiarci con sue lettere inedite, testimonianza preziosa della sua permanenza su questa Terra.

Terminate sbrigativamente le mie faccende, tralasciai le altre missive e cominciai a leggere la prima lettera, che risaliva al 1599 (mio padre aveva allora trentacinque anni):

Londra, 18 gennaio 1599

Gentile conte,
è con metodi poco ortodossi che mi sono procurato il suo indirizzo: spero non le rincresca.
[…] Quando il conte di Derby ci ha presentati, ormai due sabati fa, immediatamente mi ha colpito la sua giovinezza: a soli diciotto anni compiuti, lei, sig. Pembroke, è un giovanotto colto e brillante, che non dubito crescerà sviluppando una mente ben più arguta di quanto quegli altri boriosi signorotti presenti al tavolo possano, a torto, presumere di possedere. E di sensibilità, anche, oltremodo sviluppata, quasi – ma non intendo offendere, con queste mie osservazioni, la sua virilità – di donna (qualità che mi è congeniale, e che apprezzo).

La lettera, priva degli sterili convenevoli che si confanno ad un uomo nei confronti di un altro che conosce poco, conteneva la prosecuzione di alcune questioni letterarie e retoriche che mio padre doveva aver intrattenuto di persona col suo profusamente stimato interlocutore, e si concludeva con una clausola che certamente giudicai insolita, se non compromettente.

Come detto, ho grande riguardo per la sua opinione – attendo di conoscerla in una risposta che mi auspico essere celere –: la prego di non scambiare il mio – inusuale – invito per becero paternalismo, allora, quando le raccomanderò di sposarsi al più presto. Una così pura età, che tanto le si addice e che sembra, oserei dire, ricamata con grazia sulla sua persona, mio caro, non merita certo di essere sciupata in una chiusa autoreferenzialità, di marcire col suo giovane corpo, ancora forte, ma che ne sarà presto tomba, abbandonandosi al tempo che mai si arresta nel suo drammatico corso. Riprendendo Erasmo, di cui a lungo abbiamo dissertato insieme: “Non muore, chi di sé lascia immagine viva”; è la mia naturale propensione di poeta per la Bellezza – che, lo confesso, riconosco incarnata nelle sue sembianze – a suscitarmi questo appello: opponga strenua resistenza alla decadenza della carne, e si affidi all’unica forma di immortalità che è concessa alla nostra povera materia: la prole. Distilli in tempo la sua preziosa fragranza, semini ora la semente e raccolga poi i frutti, per costruire un riparo dall’inverno crudele e non rimpiangere, un giorno, questa sua estate.
[…]
Sia, inoltre, accorto contro quell’affilata arma di seduzione che la donna sa essere: non commetta l’errore di confondere l’unione matrimoniale, funzionale e generatrice, con il mero svago erotico cui la sua età può indirizzarla: non si confà al suo rango.

A quelle parole, che per un inglese dotto, allora, dovevano suonare familiari, ne seguivano molte altre, di analoga fattura, in altrettante epistole successive – il conte doveva dunque aver risposto a mio padre –:

Stratford-upon-Avon, 2 giugno 1599

Mio caro conte,
la tua lettera è stata, per me, motivo di attenta riflessione. Mi trovo ora fuori Londra a terminare il mio Enrico IV; la candela di cui mi servivo per lavorare era ormai un mozzicone la scorsa notte quando, d’un tratto, è balenata in me la soluzione, l’espediente alla morte definitiva: esso risiede nella stessa penna che impugno. Ho scritto tutta la notte, sperimentando, ed eccolo ora tra le mie mani – e presto nella busta in cui questa lettera ti perverrà –: la poesia, quest’arma leggera e infallibile, sarà il rimedio che opporrò al Tempo, cui consegnerò intonsa la tua immagine sfuggente fermandola sulla carta, una volta per tutte, e nel Tempo stesso, in un presente perpetuo. Non domando tue considerazioni: ho già deciso. La tua immagine, a me, devoto, così cara, merita l’eternità; e la posterità merita la tua immagine. Non devi morire oggi.

Stratford-upon-Avon, 7 giugno 1599

[…]

Ma sarà quest’arma abbastanza potente? Ed io, sciagurato scribacchino, con le mie sterili rime, sono all’altezza del nobile incarico? Il ritratto è sempre una contraffazione: non genera, ma rappresenta. Come si può rendere, identica, la tua sacra interiorità? E pure l’esteriorità, ora all’apice: nemmeno un pittore, al mio inchiostro contrapponendo il colore, può riproporla intatta. Forse solo tacendo potrei renderti giustizia.

Londra, 28 febbraio 1600

Caro William,

(ogni volta è per me motivo di gaudio riconoscere il mio nel tuo nome). […] La nostra vicinanza, la nostra comunanza d’intenti, la stima e l’affetto che ci legano, la nostra amicizia, insomma, sono senza pari, e anzi ben più nobili del sentimento basso e prosaico che lega l’uomo alla donna, obnubilandone le facoltà e reprimendone il raziocinio; così Montaigne, uno degli autori a me più affini, parla nel suo Sull’amicizia, ed io non posso che convenire.

A lungo suppongo di aver ricercato un rapporto tale, analogo a quell’indissolubile unità propositiva tra i miei Antonio e Bassanio, che descrissi ne Il mercante di Venezia. Ma analogo, soltanto: sono incapace, mio caro, di descrivere adeguatamente l’amore – questo amore: diverso da qualsiasi sentimento unisca uomo e donna (laccio febbrile di incostante passione) –: sii tu, dunque, particolarmente abile a scovarlo.

Si fece quasi buio: frastornata, imbastii una sommaria cena per mia madre – che mi premurai di non informare delle lettere –, ma l’ansia mi impedì di mangiare io stessa. Sistemata la cucina, mi ritirai nella mia stanza e seguitai la lettura del carteggio, che si protrasse per tutta la notte.

Londra, 2 settembre 1600

[…] Che hai fatto…? Tornato da Stratford, questa mattina, ho saputo. La rabbia è stata breve: si è in me dileguata in favore di un ben più amaro sentimento: la delusione. […] Ciò che ho creduto di scorgere in te è dunque un miraggio? Non voglio credere questo: ti prego di rispondermi, spiegarmi, ed eventualmente scacciare queste nuvole che stanno per la prima volta offuscando, in me, il tuo sole.

Gli scritti successivi tornavano improvvisamente formali: mio padre – questa sua versione a me, figlia, ignota – si informava educatamente circa la salute del suo interlocutore; poche chiacchiere di scarsa importanza, saluti cordiali. Un’ampia ellissi temporale, fino al 1609: un’ultima lettera, più recente, recava una grafia frettolosa:

[…] Ti prego di credermi, William: non ho nulla a che fare con la pubblicazione della raccolta. La mano che ti scrive non è ormai neppure la stessa che compose quegli abietti versi, di cui ho ora vergogna e che certamente recano a me più danno che a te. Incontriamoci e discutiamone privatamente. Non dormo serenamente nel timore di averti indirettamente offeso.

Più nulla, poi. Sapevo a quale pubblicazione si era riferito mio padre in quell’ultima, disperata lettera – aveva poi avuto riscontro? Il confronto era infine avvenuto? Aveva potuto riconoscere, in quel conte ormai ventinovenne, quello che avevo facilmente identificato come il giovane ispiratore di quei suoi tanto discussi sonetti? A queste domande, come ad altre, non ottenni mai risposta.

Riflettuto a lungo, decisi che il carteggio non meritava di essere sottoposto al pubblico, giudice inclemente – e, meditai, di certo il mittente non avrebbe gradito una tale esposizione –: lo serbai dunque per me sola, portandolo con me quando lasciai Stratford, celandolo come un segreto persino a mia madre. La povera donna morì piuttosto serenamente sei anni dopo, beatamente ignara di ciò che la posta aveva portato alla nostra attenzione in quell’aprile.

BIBLIOGRAFIA:

William Shakespeare, Alessandro Serpieri (a cura di), Sonetti, Rizzoli, 1995

W.H. Auden, Arthur Kirsch (a cura di), Lezioni su Shakespeare, Adelphi, 2006

Samuel Schoenbaum, William Shakespeare: A compact documentary life, Oxford University Press, 1987

M. de Montaigne, De l’amitié (Les Essais), 1595

Wikipedia, William Shakespeare: https://it.wikipedia.org/wiki/William_Shakespeare

William Shakespeare, Agostino Lombardo (a cura di), Il mercante di Venezia, Feltrinelli, 2013

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