«Distruggersi / perché è il solo modo di sopravvivere»

Negazione del mito e suo rinnovamento in due riscritture postmoderne dell’Amleto di Shakespeare

di Francesco Scibetta

Noi siamo immagini non bene realizzate.
Crediamo soltanto nei fenomeni soprannaturali,
cioè nel teatro, che è un’esistenza più vera
della vita quotidiana. Al presente crediamo tanto poco
da viverlo anni e anni in una continua impazienza

E. Flaiano, Lettera a un drammaturgo, in La compagnia delle Indie

Se Amleto rappresenta il mito della modernità, l’uomo dubbioso che di fronte alla sua vendetta «si sente cadere le braccia» e che aveva informato tanti degli eroi e degli antieroi modernisti, durante il Novecento la sua autenticità sembra via via venir meno: riprodotto così tante volte da diventare antonomastico, il dubbio amletico diventa certezza, monumento, mito. E di fronte a un mito che non sentono più proprio gli scrittori postmoderni (e non importa che Flaiano scriva trent’anni prima dell’affermazione del postmodernismo propriamente detto, se postmoderna è la sua «condizione») si sentono in diritto e in dovere di abbattere il monumento che lo rappresenta per appropriarsene. Per farlo traducono la materia scespiriana in linguaggi e in forme inedite e, pur facendo violenza al testo originale, ne rinnovano, benjaminianamente, il messaggio

Nel 1943 Ennio Flaiano, nascostosi dal richiamo della leva e in tempi «abbastanza crudeli» scrive il proprio personale Amleto: un «monologo in quattro quadri e un epilogo» in versi sciolti.

Qui la tragedia scespiriana si consuma precipitosamente, accompagnata ed esplicitata dalla voce di un Amleto logorroico, e non è altro che un rapido intermezzo alla noia, condizione esistenziale novecentesca, in cui è trasfigurata la «nota indecisione» amletica.

L’esordio è programmatico: «Sono stanco d’esser stanco»[1]. Già dai primi versi il personaggio non entra più nel proprio ruolo eppure lo deve recitare «Ed io non credo / Anzi mi rifiuto di credere, / A questa storia di fantasmi // Ma dev’esser vera». La follia dell’Amleto scespiriano muta in un odio per i personaggi che, continuando a essere tali, lo costringono a recitare: «Ofelia ti detesto / Vorresti fare di me un principe ereditario, un taglianastri, un giramondo, un rubacuori»; «Io ho ucciso mio padre / Che osò determinarmi, fare di me un attore». Questo Amleto rivendica infatti per se l’uccisione del padre: un «delitto» che, grazie a Freud, gli «compete filosoficamente» ma che secondo la trama non gli competerebbe affatto. E alle proteste dei personaggi risponde sublimando la propria tragedia: invece che far morire tutti i personaggi decide di uccidere i «critici» che li confinano in ruoli mitici che ormai stanno stretti. È questa una «strage legale» che riporta il personaggio alla sua condizione iniziale, «Eccomi ricaduto in apatica meditazione» e gli permette di cominciare quell’unico ragionamento che l’uomo contemporaneo, come quello moderno, sente ancora proprio: «se val meglio soffrire / O far soffrire il prossimo / Questo il problema», che è poi una variazione sul tema della grande domanda sull’opportunità o meno del suicidio, mediata attraverso Leopardi[2]. A svegliarlo da questi ragionamenti è ancora una volta il fantasma del padre, che viene anch’esso ucciso per «sorpassare / Le proprie intenzioni, […] fare lo sgambetto / Alla fatalità» e concludere finalmente l’anello che riporta all’inizio.

Anche l’Amleto flaianeo, nonostante la carica iconoclasta, assume un’accezione quasi eroica: la noia è «una difesa contro l’ondata che questo secolo ci getta addosso di attivismo, di pensiero, di ideologie, di incitamento, di vitalismo»[3] e la satira, volta proprio a scardinare i miti, è l’antidoto alla retorica («promettiamo solennemente di rinunciare alla satira solo quando tutti avranno rinunciato alla retorica»[4] recita una dichiarazione di poetica di Flaiano) e allora Amleto diventa un exemplum dell’umano virtuoso secondo Flaiano: colui che rifiuta la propria maschera, identitaria e sociale oltre che di scena, ben sapendo che oltre a quella non c’è niente.

La stessa tensione verso il nulla è il fondamento dell’interpretazione dell’Amleto di Testori, «la furia dei movimenti mira sempre a raggiungere la sua propria stasi» che però non è qui la noia bensì «la pace e la fermitudine della bara»[5]. All’interpretazione di Testori fa fronte anche una sua riscrittura del dramma amletico: Ambleto, scritto nel 1972 come parte della Trilogia degli Scarrozzanti.

Qui la tensione verso il nulla, filtrata attraverso la psicanalisi, non può che diventare la pulsione di morte e di conseguenza la volontà di regressione al ventre materno, al «buio della carne», all’illusione del quale Ambleto arriva in un’estasi alla fine del primo atto: «Desso me se ferma qui, in del grembo benedetto […] se lassa andare ammò indepiù; ammò indepiù; e vado indidietro, franzese, indidietro; e devento sempre più piscinino»[6]. La regressione però è negata dalla stessa madre e soprattutto dal «poteraz» ch’ella insegue e rappresenta: tanto quello politico quanto quello famigliare.

Ancora una volta nell’Amleto novecentesco il padre (il cui spirito è in questo caso evocato dall’estasi di cui si è parlato sopra) non è affatto alleato ma anzi nemico, colpevole non solo di pretendere l’assoggettamento del protagonista al suo ruolo sociale e teatrale, affinché il potere rimanga nelle mani della famiglia («conta el regno […] Salva la statutazzione; salva la corona; salva la granda, soveràna piramida dell’ordeno e del potere; salvala»[7]), vicino in questo alla madre che pur l’ha assassinato, ma soprattutto di averlo dato alla luce: «imperchè non li sorbite prima de farli i figli vostri de voi?»[8]. In quest’ottica assume un valore ancora maggiore l’amore omosessuale che è amore senza generazione, oltre che distante dalle dinamiche del potere, ed è un amore platonico e cristiano, in quanto destinato a sublimarsi in amore universale.

Il proposito di Testori è quello di strappare il personaggio amletico dalla sua condizione novecentesca di stereotipo culturale, per restituirgli un linguaggio e una carnalità rinnovata e farne nuovamente un eroe drammatico. Per restituire autenticità all’eroe è però necessario sottolinearne l’artificio e allora Amleto è messo in scena “alla seconda”: gli spettatori assistono allo Scarrozzante che mette in scena un rinnovato, e nuovamente sentito, Amleto che può essere ambientato ovunque («Inizipit a Elzinore o in n’importa che altero paese»[9]) perché universali sono le sue conclusioni: l’unico modo per avvicinarsi a un amore universale e cristiano è quello di «spetesciare» la «piramida dell’ordeno e del potere» che rappresenta il “marcio in Danimarca” o, in termini testoriani, la «fatturatissima merda» in cui tanto la «regal corte» quanto il «non ambleticus Ambleto» sono «indidentro fino al collo». Allora è anche sé stesso che Ambleto deve annientare per poter infine raggiungere l’agognato ricongiungimento con la pre-vita e con l’amore: «vivaremo inzieme per sempro» dice al Franzese-Orazio prima di spirare «como se tutto fudesse inzolamente la fantasia de noi. E forze, tornati per sempro in del niente, reussiremo a capire quello che qui se chiamava vanamente la felicità, la giustizia e, indelsopradeltutto, la vita.»[10]

Bibliografia

I. Puggioni Drammaturgie di un satiro: riscritture e ricorsività di ʻAmletoʼ nel teatro di Ennio Flaiano In La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014

G. Signorello Una riscrittura del Novecento:l’Ambleto di Testori. In La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014

I. Puggioni «La serietà come solo umorismo accettabile».Appunti di serietà umoristica in Ennio Flaiano. In I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014

S. Giuliani, Luoghi sub specie alteritatis. Giovanni Testori, in «Cahiers d’etudies italiennes» n. 7, 2008 F. Milani Testori e i corpi femminili In La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso  dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), a cura di L. Battistini, V. Caputo, M. De Blasi, G. A. Liberti, P. Palomba, V. Panarella, A. Stabile,


[1]E. Flaiano, A. Longoni, M. Corti (a cura di) Opere. Scritti postumi, Milano, Bompiani, 1988, p. 257

[2]Il riferimento è al Dialogo di Plotino e Porfirio «Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro» G. Leopardi, L. Melosi (a cura di) Operette morali, Milano, BUR-Rizzoli, 2008, p. 568

[3]Da un’intervista a Flaiano riportata in A. Longoni, M. Corti (a cura di) cfr p. 1231

[4] Dal testo del programma di sala della prima di La guerra spiegata ai poveri al Teatro Arlecchino di Roma il 10 maggio 1946

[5] Gilberto Santini, Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, Quattroventi, Urbino, 1996, pag.54

[6] G. Testori, Ambleto in Trilogia degli Scarrozzanti, Milano, Feltrinelli, 2021 Atto I scena V

[7] Ivi Atto I scena V

[8] Ivi Atto I, scena V

[9] Ivi Atto I scena I

[10] Ivi Atto II, scena V

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