Gabriele Torres, in questo suo racconto breve, vuole approfondire il concetto di un meccanismo della coscienza alquanto peculiare: l’amnesia dissociativa causata da esperienze traumatiche, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)
“Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe”
In quel periodo facevo un sogno ricorrente.
Mi attirava verso di lui, sembrava predire il mio futuro. Mi sentivo come il coraggioso Odisseo mentre udiva il canto delle sirene. Percepivo una cosa crescere dentro di me che mi spingeva a compiere il fatto.
Pazzo, penserà lei, dottore, ma è questo quello che sono? I pazzi non ragionano, io, invece, ero ben cosciente di quello che volevo.
Dove mi trovo lo so per certo, ma credo di non comprenderne il motivo. La avverto, non stia così vicino, sono un tipo nervoso.
Credo che debba sapere come sono arrivato qui, così presterà molta attenzione la prossima volta, sempre se non scapperà come tutti gli altri.
Mi svegliai in una capanna di legno, come quelle che si vedono di tanto in tanto nei film. Non era in ottimo stato, c’erano molti spifferi e il pavimento mancava di qualche asse di legno. Il camino e una coperta logora mi tenevano abbastanza al caldo. Non ricordo come io sia arrivato in quel posto e nemmeno che giorno fosse.
Un uomo possente, dalla faccia buona e con una folta barba, se ne stava seduto vicino al camino, intento a intagliare una statuetta, che a prima vista mi sembrò raffigurare un lupo.
Il mio risveglio deve averlo distratto, perché si fece scappare il coltellino dalle mani provocandosi un taglietto al pollice. «Ben svegliato», mi disse succhiandosi il sangue dalla ferita, «spero che non ti prenda un malanno, sai, con questo freddo; il mio nome è Russell».
«Dove mi trovo? Come sono finito in questo posto?», dissi mormorando. Non doveva avermi capito, perché mi lanciò un’occhiata confusa.
«Non mangi da tanto, devi avere fame, prendi pure pane e formaggio, li ho presi ieri in città». Annuii.
Dovevo essermi tagliato la lingua in qualche modo, perché notai un retrogusto ferroso. «Mi chiamo Kurt», dissi strappando un boccone di pane.
«Ci troviamo nel bel mezzo del bosco, ti ho trovato svenuto nella neve, per poco non ci rimanevi secco, chissà come sei finito qui».
«La ringrazio, mia moglie sarà molto preoccupata», percepii un’aria tranquilla, diversa rispetto alla tensione di un secondo prima.
«Ha una moglie? Deve essere molto in ansia; hai dormito per tutto il giorno».
«Si chiama Wendy, abbiamo una bambina piccola, spero non le stia creando troppi problemi»
Ritornato alla sua statuetta sembrò farsi più curioso, «Wendy, che bel nome, mia figlia si chiamava così».
«Si chiamava? Le è successo qualcosa?»
Il volto di Russell sembrò prendere un’espressione cupa, «Un incidente».
Non aggiunse altro.
L’atmosfera si era fatta di colpo pesante. Una folata di vento entrava dagli spifferi delle vecchie finestre, «Hai bisogno di un’altra coperta?», le mie mani cominciavano a tremare, decisi di accettare.
«Quindi, come sei finito nel bel mezzo del nulla?», riprese Russell spezzando il silenzio imbarazzante.
La mia sicurezza cominciò a vacillare, «Ho ricordi molto vaghi; non ricordo perché mi sono addentrato nel bosco, l’ultima cosa di cui sono sicuro è di essere uscito di casa, poi…tutto nero».
«Beh allora vedrò di accompagnarti al più presto; a proposito, dove hai detto di abitare?», il mio ospite si stava facendo curioso, ma io non sapevo rispondere alle sue domande.
«Vicino al mare, è l’unica cosa che ricordo, d’estate ci andavo insieme a Wendy e al nostro cane Ros. Ma da quando è nata la bambina e Ros è morto non siamo più andati».
«Davvero non ricordi altro?» la faccia dell’uomo si fece più cupa, dentro di lui, forse, pensava che qualcosa non andasse, e a lungo andare non aveva torto.
Continuai a mangiare, Russell mi osservava un po’ sospettoso, ma dopo un po’ parve perdere interesse.
«Sai, andavamo spesso al lago tutti insieme» riprese l’uomo, «A Wendy piaceva tanto, si divertiva come una matta, correva di qua e di là senza nessun pensiero, pensa che una volta, quando c’era anche mia moglie, cadde in acqua e tornò da noi zuppa fino alla punta dei piedi, che risate». Il suo volto si era fatto nostalgico, a tal punto da far scendere una lacrima sulle sue guance massicce.
«E adesso, cosa resta…il nulla». La nostalgia che arieggiava per la stanza si trasformò molto velocemente in malinconia e tristezza.
«Mi dispiace tanto…posso chiederti com’è successo?»
Asciugandosi la lacrima con la manica del suo pesante maglione cominciò a raccontare «Ripensandoci, sembrava proprio un bel giorno, uno di quelli in cui sei spensierato, da stare sdraiato al sole bevendo qualcosa. Viaggiavamo verso l’oceano; sai, Wendy non l’aveva mai visto e mi chiedeva da giorni di portarla, saremmo rimasti lì qualche giorno, quindi avevo la macchina carica di tutte le provviste», mentre raccontava vedevo i suoi occhi diventare lucidi, «Ero tornato la sera prima da una battuta di caccia, quindi mi sentivo un po’ stanco, ma era il suo compleanno e non so quante volte me l’avesse chiesto, quindi decisi di accontentarla e di portarla comunque il giorno dopo. Mentre eravamo per strada…», si interruppe per asciugarsi ancora le lacrime, «Una macchina che arrivava dall’altra corsia ci ha incrociati, erano in quattro, sembravano tutti ubriachi, anche il guidatore. Mi vennero addosso. Nel giro di qualche secondo i freni della mia macchina si sono bloccati e siamo precipitati nel burrone. Al mio risveglio, trovai mia moglie e mia figlia morte, nessuna traccia dei soccorsi».
«Mi dispiace». Questa è l’unica cosa che riuscì a dire, l’aria si era fatta pesante come un macigno.
«Proprio crudele la vita, la mia piccola se ne è andata troppo presto, non ha nemmeno visto l’oceano» riprese Russell asciugando ancora le lacrime. «Delle volte è come se nulla avesse più senso. Sai, senza loro…delle volte ho pensato alla via più semplice, ma in quei momenti ricordo quello che diceva mia moglie e subito mi pento; uccidersi sarebbe come fare del male alla sua memoria; a proposito, lei si chiamava Alice».
Volevo dire qualcosa, ma le parole sembravano morirmi in bocca. Sentì un’ondata di calore crescente, e un lamento, quasi come un pianto, veniva dall’altra stanza. «Lo senti anche tu, Russell?», i suoi occhi pieni di lacrime si curvarono in un’espressione confusa, «Sento cosa?».
«Non senti anche tu questo rumore?»,
«No, non sento nulla, sarà qualche animale rimasto fuori in mezzo alla neve».
Ero sicuro che non fosse così, ma non ci feci caso.
«Kurt, da quanto state insieme, tu e Wendy?» disse Russell spezzando ancora una volta l’atmosfera pesante della stanza.
«Da dieci anni, più o meno; ricordo ancora il nostro primo bacio, è stato bellissimo, da quel giorno la mia vita è cambiata, in meglio ovviamente. Prima di incontrarla ero un tipo molto nervoso, ma stare con lei mi ha cambiato profondamente».
«Se posso chiedere…come vi siete conosciuti?»
«Ho un negozio di strumenti musicali, lei era una mia cliente. Un giorno mi sono fatto coraggio e le ho chiesto di uscire. Mi sentivo come un adolescente al suo primo appuntamento».
Un rumore, ora più simile ad un flauto continuava a crescere; «Un flauto?», stavo pensando a voce alta.
«Un flauto? Che flauto?» chiese Russell confuso.
«Non lo senti anche tu? Il suono di un flauto…l’avrò solo immaginato, sai, Wendy suona il flauto. Lei è una musicista, suona per l’orchestra di…Boston. Ecco ora ricordo! Io abito a Boston!». Quell’euforia deve avermi dato alla testa, mi sentivo strano, il flauto non si fermava, continuava a suonare e il suo volume aumentava ogni secondo che passava.
Sembrava vero, come se lei stesse suonando accanto a me in quel momento.
Chiesi di andare in bagno, il sapore di sangue e formaggio che avevo in bocca si sostituì con un gusto di vomito improvviso. Cominciai a stare ancora peggio, il flauto si faceva sempre più forte e a questo ora si aggiungeva lo strano pianto che avevo sentito prima. Non credevo potesse peggiorare, stavo cominciando ad impazzire.
I rumori si fermarono improvvisamente…o almeno, per il momento sembrava così.
Dopo aver vomitato, uscii dal bagno, l’uomo pareva preoccupato per la mia salute «Vuoi che ti porti in ospedale?», dissentii, volevo solamente tornare a casa per il momento.
«Tranquillo, mi passerà, sono sicuro che Wendy mi saprà dare un’aggiustata»; gli chiesi, dunque, di riportarmi a casa. La macchina era molto grande, un classico modello americano, pensai. I copertoni erano grandi quasi come metà del mio corpo e la tappezzeria, se pur l’esterno lasciasse un po’ a desiderare, appariva lucida, come se fosse stata rinnovata da poco.
«Ti piace?» chiese Russell quasi in cerca di una mia approvazione. Annuii solamente, non volevo dare un mio parere, non avevo le forze per affrontare un classico discorso su motori e cose del genere.
Acceso il motore, Russell accese la radio, lo facevo più un tipo da black metal; invece, sintonizzò il segnale con una stazione di musica classica. Se non fosse stato per il forte mal di testa che mi tormentava, sarei scoppiato a ridere.
«Dunque, hai ricordato dove abiti?» domandò accendendo il motore.
«Non ricordo perfettamente la via, ma dovrei abitare vicino al mare. La mattina, mentre bevo il mio tè, mi affaccio dalla finestra del mio salotto, dove guardo i bambini giocare al parco. C’è un’insegna davanti l’entrata…ma cosa c’era scritto…ah ecco! Victory Road! Abito vicino al parco di Victory Road. È li che qualche volta porto Judy a fare una passeggiata».
Russell mise in moto e cominciò a percorrere la larga strada.
Fu un viaggio abbastanza silenzioso, nessuno dei due sapeva più cosa dire e, probabilmente, visto il mio evidente malessere, Russell credeva di disturbarmi parlando.
Il paesaggio, ai lati della strada grigia e poco asfaltata, appariva molto vario. Da numerosi boschi, si passava a lunghe distese di verde, fiumi e paesaggi naturalistici spettacolari, qualche monumento strano vicino ai paesi della provincia e molti autostoppisti. Non ci fermammo a nessuna stazione di servizio, il viaggio durò un paio di ore. Pensavo a come potessi essere arrivato fino a casa di Russell, ma soprattutto, perché mi ero avventurato da solo nel bosco.
Arrivammo a Boston, Russell diceva di aver lavorato in una falegnameria qui in città, ma che poi l’aria frenetica e inquinata lo avevano portato ad allontanarsi e a trasferirsi nella capanna assieme alla sua famiglia. Fortunatamente, diceva, Alice lo supportava in ogni sua decisione, anche la più strana e folle.
«La mia casa non era così prima» disse Russell ricordando ancora i momenti passati, «Non era così malconcia, fuori era pieno di fiori di tutti i tipi, Alice si occupava di curarli tutti i giorni. Poi, ho mandato tutto in malora da quando Alice e Wendy sono morte».
Qualche minuto dopo, arrivammo al parco di Victory Road. I ricordi cominciavano a riaffiorare, i pomeriggi con mia moglie e mia figlia al parco, il nostro cane che giocava felice in giro. Riuscivo quasi a sentirle ridere.
«Parco di Victory Road, eccoci qua. Riesci a vedere la tua casa da qui?» disse Russell interrompendo il flusso dei ricordi.
«Scendo dalla macchina, magari riesco a vedere meglio», dopo essermi sgranchito le gambe cominciai a fare un giro cercando di ricordare la veduta esatta dalla mia casa. Arrivato al cartello “Parco di Victory Road – ingresso ovest”, riuscii finalmente a trovare la finestra del mio appartamento. «Eccola là! È quel palazzo rosso, la finestra che dà sul mio salotto dovrebbe essere l’ultima a sinistra del terzo piano».
«Bene dunque!», esclamò l’uomo mettendo in moto l’auto, «Andiamo subito, così potrai finalmente riabbracciare la tua famiglia!».
Salii in macchina in fretta e furia, non vedevo l’ora di tornare a casa, di abbracciare Wendy e Judy.
Arrivai alla porta. Suonai al campanello. Nessuno rispose.
«Che strano…manco da casa da giorni e non c’è nessuno ad aspettarmi». Magari, pensai, Wendy è andata a comprare qualcosa per la bambina e tornerà a breve.
Suonai in portineria, dove trovai Saul, il custode. Aprii la porta ed entrai, mi salutò come al solito, con un cenno della testa.
Presa la chiave, salii in fretta per le scale, non avevo alcuna voglia di aspettare che l’ascensore si liberasse. Arrivai al terzo piano con il fiatone, ma non importava, la mia famiglia era solo ad una porta di distanza.
Avvicinai la mia mano per aprirla. I rumori, che fino a quel momento sembravano scomparsi, ripresero con l’intensità di cento motori a scoppio. Toccare la porta della mia casa, aveva come risvegliato quegli orribili fastidi, e adesso sembravano più reali che mai. Il perché di quella sorta di allucinazioni, non lo scoprì fino a quando non spalancai la porta.
Visione di morte e una puzza insopportabile apparvero davanti ai miei occhi. Non riuscii a trattenere le lacrime…erano loro.
Wendy e Judy giacevano senza vita in salotto, massacrate. Erano diventate irriconoscibili.
«Ma cosa…» esclamò Russell impaurito dalla scena.
Ero davanti alla sala tinta di rosso, come paralizzato, i loro capelli strappati, i volti scavati dai colpi ricevuti. «Wendy, Judy, chi vi ha fatto questo?» provavo un’enorme sensazione di vuoto.
I rumori, sempre più forti, cominciarono a tramutarsi in voci, «È tutta colpa tua!», la voce era quella di mia moglie, ne sono sicuro.
«Wendy, sei tu? Chi vi ha fatto questo!».
Il pianto continuava a martellarmi nella testa, non avevo mai provato una cosa del genere. Un castigo portato dalla morte, questo era. La voce che mi accusava di quelle colpe sembrò prendere forma, e presto prese le sembianze di Wendy.
«Sei stato tu!» riprese lo spirito mentre cominciava a piangere, «Ma come, hai dimenticato quello che ci hai fatto? Avevi promesso di proteggerci per sempre, e alla fine, è stata proprio la tua la mano che ci ha fatto del male».
Rimasi impietrito, non riuscivo a credere a cosa stesse succedendo. I miei occhi cominciarono a riempirsi di lacrime.
«Hai ucciso prima tua figlia e poi me», riprese Wendy.
Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe. Un giocattolo, la trottola di mia figlia, stava ai piedi dei due cadaveri insanguinati. Fu a quel punto che la mia memoria riprese a funzionare correttamente.
«Sono stato io», ripresi girandomi verso Russell, che appariva sconvolto da quello che vedeva. «Le ho uccise colpendole con quel giocattolo. Poi sono scappato via, per nascondermi, e sono finito nel bosco».
Russell mi guardava con gli occhi iniettati di sangue «Come hai potuto! Mi hai mentito per tutto questo tempo!».
«No, non ti ho mentito, amo la mia famiglia, ma ho avuto i miei motivi, i miei sogni».
«I tuoi sogni? Ma cosa dici! Sei un malato! Tu mi hai mentito e hai cercato di ingannarmi con la storia dell’amnesia, e io ti ho creduto pure, credevo che fossi una brava persona». Non cercai nemmeno di fermarlo, il suo ragionamento aveva senso, dopotutto. Fingevo di non ricordare, alla fine era meglio che credesse così, non avrebbe mai capito le mie ragioni. Era in preda alla rabbia più assoluta. Si avvicinò a me e cominciò a picchiarmi.
Saul arrivò alla porta, non era solo. Mandò qualcuno a chiamare la polizia mentre cercava di separare il bestione da me.
Russell finalmente si fermò, non avevo mai visto uno sguardo così colmo di odio. Cominciò a raccontare il fatto. Io rimanevo lì a guardare il vuoto con la faccia insanguinata. Non provavo nulla.
Poco dopo arrivarono due poliziotti, diedi un ultimo sguardo ai corpi, sorrisi, poi mi portarono via.
Perché quella faccia dottore, crede anche lei che io sia pazzo?
Non è così. Io ho visto, ho sognato tutto quello che potevo fare.
Perché allora sprecare la mia opportunità. Avevo così tanto potere su di loro, perché non dimostrarlo allora, perché non dimostrare che ero superiore. Suvvia, perché mi guarda così? Non mi capisce?
veramente un ottimo racconto, bravo Gabriele!