Citato in
Fosforo, SP, I: 940Passo
Stavo inutilmente cercando, quando un mattino, cosa rarissima, fui chiamato al telefono delle Cave: dall’altro capo del filo una voce milanese, che mi parve rozza ed energica, e che diceva di appartenere ad un Dottor Martini, mi convocava per la domenica seguente all’Hotel Suisse di Torino, senza concedermi il lusso di alcun particolare. Per aveva proprio detto “Hotel Suisse”, e non “Albergo Svizzera” come avrebbe dovuto fare un cittadino ligio: a quel tempo, che era quello di Starace, a simili piccolezze si stava molto attenti, e gli orecchi erano esercitati a cogliere certe sfumature.
Nella hall (scusate: nel vestibolo) dell’Hotel Suisse, anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi, mi attendeva il Dottor Martini, che era prevalentemente Commendatore, come avevo appreso poco prima dal portiere.
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Questo estratto ci riporta agli albori della carriera di chimico di Primo Levi: siamo nel 1942, ancora sotto le leggi razziali, al cospetto di un giovane ventitreenne in erba laureato in Chimica da non troppo, con alle spalle l’esperienza lavorativa presso le cave amiantifere di Balangero.
L’accaduto è quasi miracoloso, e Primo non può dire di no: attorno agli ebrei il fascismo sta facendo terra bruciata, li sta emarginando sempre più, impedendo loro di svolgere la maggior parte dei lavori. Lui stesso si è infatti appena messo alla ricerca di altro: sa bene che, se aspettasse ancora lavorando presso le cave, sarebbe solo una questione di tempo prima d’essere altrimenti interdetto.
La telefonata del misterioso Dottor Martini – un esemplare umano di cui non manca un’accurata descrizione gestuale, linguistica e leggermente caricaturale in pieno stile Levi nel corso di Fosforo – annuncia un lavoro, ma in maniera laconica: ciononostante, Levi non può che accettare, almeno per sentire la proposta che gli si vuole fare.
Dopo il colloquio scoprirà che, per più di un motivo a scapito dei pochi contro, la scelta giusta è trasferirsi: lavorerà per la Wander, una ditta farmaceutica svizzera (lo stesso Martini, a carte scoperte, si rivelerà elvetico) che richiede i suoi servigi per lavorare ad una segretissima cura orale contro il diabete. La mansione, che accetterà già sulla prima, gli richiederà finalmente di lasciare Torino (il cui clima di allora era molto pesante, al di là della penuria di viveri), guadagnare un stipendio sufficiente a mantenersi da solo a Milano, dove incontrerà prima una compagna di università (Giulia, al secolo Gabriella, la stessa che lo aveva presentato come genio ai suoi principali), e poi diversi suoi amici concittadini in trasferta (tra cui l’allora studentessa in Giurisprudenza Bianca Guidetti Serra), con i quali andrà a vivere e condividerà la breve avventura partigiana dopo l’8 settembre 1943.
Nell’estratto ci sono due coordinate di particolare interesse: la prima è quella cronologica, con la citazione di Achille Storace, segretario del Partito Fascista in auge, durante la quale era deprecabile ogni utilizzo di termini stranieri che non fossero stati italianizzati. Alle orecchie del giovane chimico appena laureato, non sfugge affatto tale dettaglio: anzi lo incoraggia sin da subito, poiché ha capito che il suo interlocutore, curiosamente, non segue le imposizioni del regime, né è interessato a discriminarlo (vuole addirittura offrirgli un lavoro molto ben retribuito). In un clima come quello di allora, con la città incancrenita dalla guerra e l’aria familiare carica di preoccupazione (anche ecnomica) a cuasa della malattia del padre, questa possibilità significava per il giovane Primo lasciarsi alle spalle il proprio guscio e mettersi alla prova, partire all’avventura con poche certezze e qualche effetto personale nello zaino («mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce»; Fosforo, SP, I: 941).
L’altra coordinata importante è invece quella geografica, che cita l’hotel Swiss, allora situato negli immediati paraggi di Porta Nuova, all’incrocio con via Sacchi. I suoi saloni (oggi occupati da un caffè, con ai piani superiori abitazioni residenziali) ospitarono dunque uno dei primi incontri di lavoro di Levi, come leggiamo nell’estratto: i dettagli fitti nella memoria del chimico-scrittore che ricorda questa sua iniziatica esperienza riportano in vita il bizzarro salone dell’albergo. L’immagine dell’«anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi» ci pone davanti agli occhi la presenza imperante di un prezioso arredo tipico anche, peraltro, degli sfarzosi tinelli borghesi in cui capitava più di qualche volta il giovane Primo durante la sua infanzia torinese.