Citato in
Cuore di legno, 1980, AOI, II: 714
Passo
II mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di corso Re Umberto;
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
In aprile, di spingere gemme e foglie,
Fiori fragili a maggio,
A settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Dal sottosuolo saturo di metano;
E abbeverato d’orina di cani,
Le rughe del suo sughero sono intasate
Dalla polvere settica dei viali;
Sotto la scorza pendono crisalidi
Morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
Sente e gode il tornare delle stagioni.
*
Questa poesia è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che Levi, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare. Dei viali torinesi, gli alberi sono forse la parte più notevole: delimitano il corso centrale dividendolo dai controviali e portano un fresco tocco di verde non poco importante nel quadro di una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto. Questa veduta è quella che Levi poteva scorgere dal suo balcone, oppure ogni volta che varcava la soglia di casa sua: l’albero è, letteralmente, il suo «vicino di casa», e la sua vicinanza con Levi è innanzitutto di natura bio-geografica.
Come se dovesse offrirne una classificazione binomia per indicare la particolarità della sua specie da un punto di vista strettamente biologico, Levi parla di «un ippocastano di corso Re Umberto»; il legame stretto con questa creatura, che viene qui antropomorfizzata pur nella considerazione della sua “semenza” (vegetale e quindi inanimata), sembra avere – non si sa se davvero oppure no – una coincidenza biografica non poco importante con il chimico-scrittore, il quale conosce assai bene il suo ciclo vitale durante i mesi e le stagioni dell’anno. Potrebbe anche essere, non si sa se solo poeticamente o anche anagraficamente, che il giovane Primo avesse visto tutto il processo evolutivo del tronco che cresceva nelle aiuolette che separano corso e controviale.
Come se fosse un suo fratello imperfetto, infatti, Levi è in grado di captare le sensazioni che secondo lui prova il suo particolare vicino di casa: innanzitutto quello di sentirsi un «impostore» perché vuole imitare i grandi e rigogliosi castagni di montagna, profondamente diversi, soprattutto perché immersi in un ambiente circostante molto più prolifico rispetto a quello del centro torinese; la prima differenza si scorge proprio da ciò che queste due specie arboree producono: se l’ippocastano di corso re Umberto non dà che «fiori fragili» e «ricci dalle spine innocue / Con dentro lucide castagne tanniche», il fratello montano è invece «Signore di frutti dolci e di funghi preziosi», ed è «bravo».
L’albero cittadino, però, soffre: «Non vive bene» perché è immerso in un contesto nient’affatto georgico che non lascia spazio alla libera realizzazione della natura naturans, ma anzi la blocca, la impedisce e ne minaccia fortemente lo sviluppo. I tram che scorrono veloci (e pesanti) sui binari di corso Umberto, simbolo della modernità torinese e della capillarità con cui è stata organizzata la rete del trasporto pubblico, gravano sulle radici del povero ippocastano ad ogni corsa («ne rimane rintronato», appunta il poeta), obbligandolo a sopportare il peso dell’evoluzione della città e degli spostamenti della sua popolazione.
Per questo «cresce storto, come se volesse andarsene»: è fortemente piagato da un ambiente che non fa nulla per favorirlo, che non lo lascia crescere liberamente come lui vorrebbe invece fare, e che anzi mina pericolosamente la sua salute. Oltre al peso dei tram, infatti, quotidianamente «succhia lenti veleni»: l’azione dell’inquinamento cittadino (specie in un corso centrale tanto trafficato quanto quello in questione) è dirimente, ma poco a poco, giorno dopo giorno, come se fosse una sorta di condanna. Non lo aiutano infatti il «sottosuolo saturo di metano» né la «polvere settica dei viali», nemmeno riceve acqua per dissetare la sua crescita, ma invece «orina di cani» che gli abitanti portano a passeggiare ai piedi delle sue radici.
Come se fosse malato di una malattia cancerogena, le «rughe del suo sughero sono intasate» e non possono che assorbire tutti gli scarti della vita cittadina; per questo, seppur «Alberga passeri e merli», «Sotto la scorza pendono crisalidi / Morte, che non saranno mai farfalle»: non c’è soluzione di continuità con la vita che rinasce dal nulla, e, essendo avvelenato dal profondo delle sue radici, non può offrire nutrimento vitale agli ospiti che si appoggiano su di lui. Ma c’è una concessiva finale che ribalta la situazione, riprendendo il quadro iniziale e affermando che non tutto è perduto: così come «non ha vergogna, / In aprile, di spingere gemme e foglie», nonostante i suoi siano soltanto «Fiori fragili a maggio», «Sente e gode il tornare delle stagioni»; dunque è vivo, percepisce ancora la vita dentro di sé e attorno a sé, pur sognando di essere come il suo alter-ego montano, perché non tutte le sue speranze sono perdute; il suo, dal punto di vista fortemente antropormorfizzante del poeta, è un «tardo cuore di legno» ancora in grado di vibrare di vita, nonostante l’impervio ambiente in cui è stato impiantato.