Rossella Cutuli, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita del mondo, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
La mia riscrittura è incentrata sulle origini, non tanto del mondo bensì della sua bellezza in cui la vera forza creatrice e al contempo distruttrice è la Natura. Ispirata in parte alla Genesi e in parte alle Metamorfosi, non preclude un discorso scientifico. L’origine qui viene narrata dal punto di vista di un non-corpo che dalla propria immobilità coglie il più impercettibile dei movimenti. La narrazione è infatti affidata a un coro millenario, a dei faraglioni in mezzo al mare. Anche se non è esplicitato, i faraglioni in questione sono quelli di Acitrezza, in Sicilia, un luogo che è stato di ispirazione per tanti artisti e poeti, non soltanto Verga ma anche lo stesso Ovidio nell’episodio di Aci e Galatea (Met. 13).
*
Siamo
nati più volte, senza mai morire.
Eravamo qui quando il Sole non esisteva,
e la Luna non esisteva e le Pleiadi non pulsavano
e il Mare non rumoreggiava.
Quando tutto era niente[1],
solo vuoto di liquide tenebre
s’accresceva nei suoi bordi frastagliati.
Eravamo
qui prima di Poseidone
quando le unioni erano sterili
mortali o immortali che fossero.
Poi dai vortici d’argento fu disegnata
una bellezza sovrana,
essa creò i colori da un fiore
ornamento profumato per i suoi capelli,
ne creò un altro ancora più colorato del primo
da quello nacque un uccello
fu così che venne al mondo la bellezza, l’ineffabile, il sublime,
la facoltà dell’essere umani.
Di noi
fece alte cime più divine del Parnaso,
qui nacquero le ninfe dalla bella chioma
qui cominciò il canto,
l’eco delle storie antiche[2]
Polifemo[3]ci
scaraventò contro Odisseo ché l’aveva accecato[4].
Fummo sommersi dai diluvi[5],
a lungo non sentimmo il respiro del vento,
diventammo la casa e il riparo del ramingo Caino[6]
quando dio ci dimenticò nel tartaro,
ma svettammo ancora grazie alla forza sottomarina dell’Etna,
e ci rivestì della sua lava.
Accadde allora che Caino fu ucciso da un Re avido,
poi da un padre geloso
e infine per amore della Bellissima
ci abbandonò espiando.
Non apparteniamo a nessuna dinastia,
non siamo figli di alcun dio.
Eppure, molti furono i poeti che per noi narrarono
non demmo loro muse e ispirazioni
ma motivi e ambientazioni
da Omero a Verga, e a chicchessia
sorsero parole, immagini e personaggi
Odisseo, i Malavoglia, Aci e Galatea
«Aci era figlio di Fauno e una ninfa nata in riva al Simeto:
delizia grande di suo padre e di sua madre,
ma ancor più grande per me; l’unico che a sé mi abbia legata.
bello, aveva appena compiuto sedici anni
e un’ombra di peluria gli ombreggiava le tenere guance.
Senza fine io spasimavo per lui, il Ciclope per me».[7]
E qui, nel blu dello Ionio, restiamo immobili nella forma maestosa
cesellata dai venti,
con lo sguardo fisso da giganti e l’udito di roccia,
senza merito, né gloria
da cinquecentomila anni e più.
Non proviamo pena, né languore
le nostre ossa sono pietra
delle lacrime però abbiamo il sale.
Col tempo anche noi ci siamo evoluti,
a tal punto che il nostro orecchio, che orecchio non è,
riesce a udire i pensieri più remoti
e il nostro sguardo, che sguardo non è,
può vedere al di là dei corpi,
fino all’anima e ai sogni che si distendono oltre l’orizzonte.
Le anime dei vivi con i loro desideri e le loro paure
tracciano strade inarcate dal buio alla luce,
noi sappiamo tutto ciò che dall’anima si stacca e cosa vi è penetrato.
Anime il cui corpo cambia
e cambiando muove passi leggeri
lungo un cammino in eterna creazione,
un cammino circolare irto di fine e inizi.
-Una danza commovente per noi immobili-.
Con l’aiuto del vento, assorbiamo la polvere della loro memoria
perché ci chiedono verità e poesia
ma un solo nostro sospiro scatenerebbe cataclismi.
Soltanto quando tutto il rumore cessa nella quiete,
e terminano gli schiamazzi,
le urla dei mercanti di pesce, i pianti dei bambini,
quando l’intero Ionio è pace
e il sole è già calato con la stessa lentezza di una palpebra che s’abbandona
nel sonno;
è allora che, nel silenzio dell’etere,
noi rispondiamo, non con parole funeste,
ma sul palco dei sogni,
è così che ripaghiamo i nostri dispensatori di storie
poiché esse ci svelano la verità.
Col tempo le storie sono diventate per noi ciò che per i pesci è l’acqua:
l’essenziale.
Alla fine, secondo l’ordine del caos dove tutto va e viene, le lasciamo andare.
È la nostra unica legge. Il nostro unico movimento.
Ma qualcosa di quelle storie resta in noi, nella nostra immortalità.
La chiamano legge del tempo.
Noi sappiamo poco del tempo,
esso passa e non passa,
i vecchi ritornano bambini e i morti rinascono.
Ecco, tutto ciò che sappiamo.
Uomini e donne ci raggiungono a nuoto dall’Isola dei Ciclopi.
I più coraggiosi si arrampicano sul nostro crinale di grigia roccia scura
e alcuni, desiderosi di belle imprese,
colmi di meraviglia e angoscia chiedono:
«Il mondo è stato tutto questo?»
Non fanno in tempo a finir la domanda che il mondo è già cambiato.
C’è sempre una voce che vuole raccontare,
dire cosa è stato e cosa sarà.
Ecco, tutto ciò che sappiamo.
Tuttavia,
per gran parte della gente noi non esistiamo.
Scogli. Muri nel mare.
Questo siamo per quelli che arrivano e non si fermano,
che passano senza ascoltare, ci girano attorno e ci evitano.
Siamo fatti di atomi, e un atomo funziona come un animale?
D’altronde anche per noi è impossibile non comunicare.
Ed è evocando le loro emozioni che comunichiamo
ciò che a parole non possiamo.
Non è forse vero che pensano di essere fatti della stessa materia delle stelle,
ignorando o scordando che tutto è della stessa materia delle stelle?
L’immobilità è la nostra condanna,
ci differenzia da quegli esseri in eterno movimento.
Portatori universali di anime.
Esiste un ”noi” e un ”voi”
malgrado fossimo già uniti in quel nucleo caldo e denso,
in un tempo in cui non esisteva ancora il tempo;
prima che lo scoppio del più grande evento creativo avesse inizio,
sì, chiamatelo Genesi o Big bang[8].
Se
potessimo vi invidieremmo
la morte e la possibilità di ricominciare
non è che noi siamo immortali e voi no, niente affatto.
Dopo ogni morte si ritorna alla vita, ed è ciò che noi chiamiamo immortalità.
In noi, cose della natura, adulatori di storie,
c’è la chiave di lettura del linguaggio dell’universo;
in voi la voce.
La nostra missione è portare il messaggio e mostrare la strada
spesso entrambi falliamo.
Non era questo ciò che volevamo
ma a noi non è concesso volere qualcosa.
Essere muti portavoce di ciò che immaginiamo sia la realtà è il nostro
mestiere.
Noi, voi, siamo l’universo.
Ditelo, siamo l’universo.
[1] Ovidio, Metamorfosi, I, 1-20.
[2] Cfr. Esiodo, Teogonia.
[3] Ciclope della mitologia greca citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio.
[4] Odissea, IX, 480-486. La scena dell’accecamento di Polifemo e del lancio di massi da parte del Ciclope trova un parallelismo nel gigante presente nella novella Sindbad il marinaio, nella raccolta Le mille e una notte.
[5] Riferimento al Diluvio Universale di Genesi, 6, 13 ssg.; Ovidio ne parla invece nel mito di Deucalione e Pirra (Metamorfosi, I, 313-415) e ritorna anche nella mitologia babilonese (cfr. l’Epopea di Gilgameš).
[6] Caino appare in Genesi, 4,1-15).
[7] È il riferimento all’episodio di Aci e Galateanarrato in Ovidio, Metamorfosi, XIII, 738- 897.
[8] Cfr. S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988.
Bibliografia
Bibbia, Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna, 1974
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Rizzoli, Milano, 1984
S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 2014
Ovidio, Metamorfosi, a cura di G. Rosati, BUR, Milano, 2003
N. K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano, 1986