Sulle spalle dei giganti

Irene Fiducia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles e il Cymbelineshakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questa riscrittura nasce dall’idea secondo cui «quel che succede quando una nuova opera d’arte è prodotta è qualcosa che avviene simultaneamente in tutte le opere che l’hanno preceduta» (Eliot, Tradition and individual talent, 1919). Invertendo il rapporto di filiazione tra Shakespeare e le sue fonti ho quindi immaginato un Pericles scritto da Omero e un Cymbeline uscito dalla penna di Boccaccio, nella consapevolezza che non siamo altro che “nani sulle spalle dei giganti”.

*

Περικλῆς ὁ βασιλεύς Τύριος

Solcava i rapidi flutti la nera nave, lasciata alle spalle
la luminosa Pentapoli. Per molti giorni attraversarono
la scura distesa del mare; Zefiro soffiava benigno.
Riposava sereno Pericle Tirio stringendo la sposa,
sognando la casa e il ritorno: e illesi sarebbero giunti
alla terra dei Padri, ma il Fato crudele li strappò ai dolci lidi.
Violento infuriò il dio Enosictono, radunò i nembi e
nell’atra notte tutti scatenò i turbini. Euro e Noto
piombando impetuosi sul mare aprirono alti gorghi.
Fu sballottata la nave e vacillò, investita dai grandi flutti.
Invano si affannava Pericle Tirio, confortava
i compagni, fronteggiava i marosi. Invano invocava
l’Olimpio, che placasse la turba dei venti.
Accorse allora la cara Licorida portando in braccio
la figlia, pargoletta, e così si rivolse al sovrano:
«Nobile Pericle, per il terrore la Simonidea, tua sposa,
ha dato alla luce questa infelice ed è presto perita».
Si sciolsero a Pericle le ginocchia e il cuore; levate
le palme al cielo lanciò un lamento e così pregò gli alti numi:
«Ahimè, sventurato! Davvero non hanno mai fine
il travaglio e le pene, che ora trascinano me e i miei affetti
più cari! Ecco, Taisa dai riccioli belli discende volando
nell’Ade: dolenti la piangono la dolce bambina e il caro sposo.
Zeus e voi numi tutti, fate che cresca, questa mia figlia,
così come Taisa fu, giovane distinta fra le altre, e un
giorno dica qualcuno: “È molto più bella di sua madre!”.
Porti ella nobili pretendenti, goda in cuore il padre!».
Dopo aver detto così, mise in braccio alla fida nutrice
la figlia sua e riprese il timone contro la furia dei flutti.
Neppure così si placò il dio che addensa le nubi, ma suscitò
Borea e un tremendo uragano e con le nubi ravvolse
terra e mare. Come un vento impetuoso trascina
le fragili foglie e le sparpaglia qua e là, così l’Enosictono
con una grande onda sparpagliò i lunghi legni.
Vide questo il saggio nocchiero e così si rivolse al sovrano:
«Gettate la dolce sposa in mare, signore: non avanza la rapida nave
finché un morto è a bordo, ed è lontano ogni approdo».
Un tremendo dolore invase il nobile Pericle, che pur soffrendo
nel cuore cedette; fece portare una cassa
ricolma di molte ricchezze e, ivi posta la Simonidea, disse:
«Donna, io temo l’abisso profondo e il naufragio dei miei;
ma non tanto dolore avrò per i compagni quanto
per te, che qualche maroso trascinerà a fondo o su lidi
stranieri, giusta sepoltura togliendoti. Dirà forse qualcuno
che ti vedrà morta: “Ecco la sposa di Pericle, ch’era il più forte
a combattere tra i nobili pretendenti!”»
Disse così il nobile Pericle e, gettata la cassa, vagò
sull’onda dura. Spesso il suo cuore intravide la morte;
ma quando Aurora dai riccioli belli portò il nuovo giorno
il vento cessò: aguzzando la vista egli scorse vicino la terra.

Giornata II, Novella 9

Postumo Lionato, da messer Giacomo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie Innozene sia uccisa; ella scampa e in abito d’uomo serve un ambasciadore romano: ritrova lo ‘ngannatore e Postumo in Bretanniadove, lo ‘ngannatore punito, ripreso abito femminile e ritrovati i fratelli, col marito riappacificossi e con il padre.

Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, cominciò:

– Cimbelino, prencipe di Bretannia, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli in sua vecchiezza ligato non si fosse ad una assai cruda reina; il quale in tutto lo spazio della sua vita ebbe tre figliuoli, ma li maggiori due venendogli portati via, una giovinetta sola gli restò.

Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Postumo Lionato, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.

In cotal guisa adunque amando l’un l’altro, niuna altra cosa tanto disiderando i giovani quanto di maritarsi, avvenne poi che il fecero segretamente. La qual cosa il padre scoprendo e adirandosene fortemente, prese partito di farlo esiliare.

Giunse in Roma Postumo presso una certa sua brigata, e avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando sovvenne loro una giovenil tenzone.

Era tra questi un giovane chiamato Giacomo, il quale tosto smanioso si fece di saper per che si fosse disputato: e cominciò Lionato ad affermare di aver per moglie una donna la più compiuta di tutte quelle virtù che donna dee avere, e niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cagione disse che in gioventù ebbe a scontrarsi con un tale che di questo dubitava.

Di questa loda che Lionato aveva data alla sua donna cominciò Giacomo a far le maggior risa del mondo, e disse: «Postumo, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciute cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E dicoti così, che, se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederei, poco più lungiamente conversando con ella che or con te, recarla a quello che io ho già di altre recate».

Al quale Postumo rispose e disse: «In nessun modo avrei cagione di dubitar della mia sposa, ch’ella è davvero un’angelica criatura; e io spero che Iddio mi serbi sempre questa grazia che mi ha conceduta».

Allora disse Giacomo: «Se a tal punto sei persuaso che tua moglie non sia di carne e d’ossa e femina come son l’altre, metti il tuo diamante contro al mio patrimonio, e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui avrò della tua donna fatta mia volontà e tu avrai pruova di ciò che ho ragionato».

Postumo turbato rispose: «Acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, ti prometto sopra la mia fede il mio diamante se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere, e sono pronto ad obligarmi a te con uno scritto di mia mano».

Fatta la obligagione, Postumo rimase e Giacomo quanto più tosto poté se ne andò in Bretannia.

Bibliografia:

W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019

Omero, Odissea, a cura di G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 2003

Omero, Iliade, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Milano, 2012

G. Boccaccio, Decameron II,9 e IV,1, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 2014

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