Sara Cofone, in questa composizione, riscrive, in forma di lettera, il Pericle shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.
Sulle orme dell’intima scrittura di Marcel Proust, ho voluto mettere in luce la potenzialità della parola che, se scritta, può vincere il tempo che passa e perpetuare i legami. Una parola che cerca di fermare, tra carta e penna, la tempesta di un’esistenza e che conduce alla rinascita di una vita.
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Cari mamma e papà,
l’ultima volta che mi trovai in mare fu la più crudele di tutte. L’abisso, come risvegliato dalla furia di Nettuno, si agitò sempre più forte, sempre di più. In un tempo poco più lungo di un batter di ciglia, quella stessa nave che per me, Marina perché nata dal mare, fu culla, si trasformò sotto i miei occhi in letto di Moira. La furia del mare vi vinse e vi seppellì sotto un’onda più pesante della terra consacrata che sigilla il ricordo di una presenza. Tutto finì, all’apparire di un’alba che ha portato la notte in cui assaporai il vero gusto del sale che, dal primo mio respiro, aveva profumato la mia esistenza. Una lacrima salata arrivò alle mie labbra e, dopo avermi scalfito il viso marmoreo e pallido, mi bruciò in gola e scatenò la più violenta delle tempeste: quella del cuore. In un attimo finì quella vita felice che vissi con voi, dopo che lo stesso crudele mare ci aveva fatti rincontrare, e, con questa, quel dolce canto che intonavamo insieme. Il mare è stato per noi mondo, un’incognita insieme dolce e amara; è stato il misterioso specchio dell’esistenza che, come la nostra nave, scivolava su di una distesa di tutto e di nulla verso non precisate destinazioni, non precisati incontri. Quella coperta salata, che a guardarla da riva faceva paura, è stata per noi il nodo delle nostre esistenze incrociate, l’intreccio che abbiamo sfidato seguendo la stella dell’amore, la navigazione delle emozioni. Eppure, in me, più nulla cantava; Amore, da poeta e pittore delle mie giornate, si era trasformato in pesante pietra che mi portava a fondo, in un corpo che si muoveva senza sapere dove e perché andare. Non più una goccia di vita scorreva nel mio corpo impietrito dalla perdita, da quello che non avevo più e che mai più potevo avere. Avevo perso voi e, quindi, me stessa perché voi siete sempre stati me e più di me. Ho pazientato a lungo nella speranza di vedervi ritornare, ma sentivo che non c’era fuoco o musica che potesse ridarvi la vita, né voce che potesse guidarvi sulla via per ritornare al mondo insieme a me.
Tutto d’un tratto, mesi fa, involontario richiamo del cuore: camminavo sulla riva del mare, sul sottile filo tra terra e acqua, quando la brezza marina mi strinse in un abbraccio materno, portando al mio naso uno strano profumo, il vostro, quello che mi ha riportata indietro nel tempo e che per un effimero, ma potente secondo mi ha fatto percorrere qualche metro di sabbia con voi al mio fianco. Improvvisamente, ho capito che quell’antico canto era sempre rimasto chiuso in me e che a salvarmi, una volta ancora, sarebbe stata la più bella delle arti che voi mi regalaste: l’arte magica del dire, la mia parola. Ho incollato ogni brandello del mio cuore lacerato con il potente collante della comunicazione che sfida ogni tempo e spazio. Tutto in me era soffocato dal disordine degli eventi e, con la parola, ho trovato il luogo più sicuro per rifondare la mia leggera città di sogni di donna. Ho preso carta e penna e mi sono addentrata nella foresta dei ricordi, foresta fitta di immagini, profumi, momenti e voci che mi hanno permesso di riporre la mia anima scossa e turbata in ciò che mi era familiare, e che era sempre stato in me, senza che io lo sapessi. Sono rinata. Sono Renée. Mi avete cresciuta nel culto del verbo e io, da fedele discepolo, ho sempre creduto nella potenza della parola che , se detta è magica, scritta può essere miracolosa. Amati genitori, oggi vi scrivo per rivendicare un tempo di gioia che ci è stato negato. Per riportare al palato il gusto felice di un ricordo inzuppato di vita, anche se fragile come una gocciolina su un filo al passare rapido del vento e per fermare, nero su bianco, le intermittenti emozioni che ancora mi legano a voi e turbano dolcemente la mia mente cresciuta, ma ancora bambina. Vi scrivo per ricercarvi accanto a me come quel giorno in riva al mare e perché ogni mia nuova parola possa schiudere, come conchiglia di mare, la perla più preziosa di un tempo perduto.
Dal giorno in cui l’onda amara vi strappò da me, mi rifugiai in un’isola deserta e mi assicurai che il mio sposo Lisimaco mi credesse morta. So papà quanto è dolorosa una tale notizia all’orecchio di un uomo che ama, ma non ho mentito: Marina era morta davvero. Ho accettato e accolto, ma non ero più la Marina che voi lasciaste sola sulla terra prima di sparire tra la braccia della Morte. Quando rinacqui Renée, capii che era arrivato il tempo di portare la dolce primavera che, mi aveva fatta rifiorire, anche a Mitilene. Vi trovai il mio sposo, che da anni tesseva la speranza di vedermi ritornare, fedele e vinto dal più tenero amore che con il tempo non era sfumato, proprio perché, come ho imparato a cercarvi io, mi aveva trovata nel ricordo delle parole che la voce spensierata, di quella che un tempo fu Marina, gli intonava ogni sera sulle note di una piccola cetra. Nelle sue mani era scolpita la fatica. Mi disse che l’arazzo della speranza si intrecciava nel coraggio del giorno e si disfaceva nella paura della notte; mi confessò che il suo palazzo era invaso dal timore e dall’impazienza di sentire di nuovo la mia voce. Era tempo di ricominciare, per tutti. Raccontai a Lisimaco il miracolo della parola e gli mostrai il quaderno, quell’insieme di fogli su cui si riversava il mio impeto di doloroso amore, in cui voi rivivevate. La parola si faceva, lettera dopo lettera, corpo e il corpo diventava nuova vita. Come ogni lettera componeva una parola e ogni foglio componeva il libro della mia ricerca, quel libro componeva la mia, la nostra storia, che tra lacrime sorrisi e singhiozzi, regalo all’eternità schiusa in ogni piccolo gesto d’amore.
In quella primavera che emanava effluvi di armoniosa lietezza, Lisimaco colse la mia rosa e, dentro di me, in quel terreno una volta arido di dolore, sbocciò il più bello dei germogli: nostra figlia Emma. Sì, siete nonni ora. Da piccola era una bambina bellissima, ma dovreste vederla adesso come è splendida! Sai mamma, se fossi qui con noi, riconosceresti in lei gli stessi tuoi capelli ondulati e profumati di amore, le tue gote alte e rosate e la bocca che, come scrigno, schiude il più dolce mistero che possa giacere in una donna. Papà, la tua forza e la tua tenacia da sovrano rivivono, in abiti femminili, nella nostra Emma. A Lisimaco assomiglia solo per bontà d’animo; da me, la natura ha voluto che ereditasse la potente arte, che esercita in modo diverso da me. Parla poco, solo all’occorrenza, ma le sue parole di miele addolciscono il grezzo della carta. Emma legge molto, vive ogni giorno un’illusione diversa in ogni nuovo libro; illusione che non la inganna, ma che sa filtrare e scatenare, con controllata forza, per dar valore alla realtà.
Una tiepida mattina d’estate, mentre districavo i più ostinati nodi dalla sua chioma ondulata, ho sentito lo stesso profumo di rose e di viole che si spargeva nella mia stanza quando tu, mamma, intrecciavi i capelli di quella giovane fanciulla, ora mamma come te. Sulle sfumature di quel tenero profumo floreale, senza spostarmi di un passo dalla mia dolce creatura, sono ritornata in quella stanza piena di mattina che accoglieva le nostre chiacchierate complici. Ricordo con quanta elasticità queste cambiavano argomento e come mi sentivo libera tra le parole che echeggiavano nella stanza e mi parlavano di vita pura. Avevi sempre un grande controllo in quello che dicevi, mentre mi insegnavi a essere una donna.
Vorrei poter dare a Emma, ancora giovane e inesperta, la meraviglia che mi avete insegnato a coltivare e che oggi, anche se non siete più, con il corpo, insieme a noi, parla di voi e fa splendere la terra della vostra grazia da sovrani, prima di Tiro, del regno dell’amore e della vita semplice che mi lasciaste in eredità prima di soffocare tra i furiosi flutti di sale.
Più questa lettera conquista spazio sul bianco del foglio, più io vi sento accanto a me : la mamma alla mia destra che mi dice di non piangere perché il nostro amore è arte e, si sa: l’arte sola salva dalla morte. Papà, tu, sei alla mia sinistra e, con le tue possenti mani da guerriero che ha infinitamente sopportato, mi stringi le spalle e diventi scudo nella mia guerra, che solo questa sequenza illogica di parole può vincere. Così, armata di penna nel campo bianco cosparso di nero, ritrovo le emozioni più profonde, ritrovo racchiusi i beni interiori che, come quelli materiali, pensavo che la fatale tempesta avesse perduto per sempre. Vedo parole che sembrano scritte in una lingua solo per me che ricrea la mia realtà e vi restituisce al mio amore di figlia. Ritrovo, nello spazio tra una parola e l’altra, il respiro che la vista della vostra morte ha soffocato nella mia gola che ,per anni, ha smesso di cantare. Per ritornare a cantare un canto che un tempo fu cantato, “to sing a song that old was sung”, iniziai a scrivere la mia ricerca. Sono passati anni da quando, per la prima volta, presi in mano quella bacchetta magica che è la penna, da quando l’antico canto ha ristorato il mio presente, un meraviglioso presente di cui mai mi sarei detta destinata e che canta un canto nuovo, ma sulle stesse dolci ed eterne note d’amore e di vita.
Mamma, papà, lasciate che la parola vi raggiunga, ovunque voi siate e che riempia il vuoto che vi separa da me, da noi perché ogni parola è come un fragile fiore sospeso tra memoria e presente, tra dolore e nuovo inizio; insieme loto che dona l’oblio e girasole che segue la luce celeste e sconfigge le tenebre, cantando l’armonia della vostra voce che urla sul muto foglio e, proprio come un tempo, intona il dolce canto insieme a me . Adesso che scrivo vi riscopro, cade il travestimento e, in quella cicatrice di dolore rivedo il mio passato che ritrovo presente. Anche quando la morte cancella, sapete, la parola rigenera e nel mio scrivere ricostruisco in nome dell’amore perché dopotutto, come scrive Proust, c’è sempre una sopravvivenza negli abissi del cuore e, nel fluire implacabile e incontrollato del finito, la nave scivola verso la ricerca dell’eternità del nostro prezioso tempo perduto.
La vostra Marina, oggi Renée.
Bibliografia:
Flaubert G. (1857), Madame Bovary, Gallimard 2001
Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2014
Marcel P. (1913) , Le intermittenze del cuore, traduzione di M. Noja, La Vita Felice, Milano 2018
Bellissimo, toccante. Lessico ricco, evocativo e avvincente. Bella la rielaborazione epistolare.
Prof.ssa Fosca Baradel