Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.

Ulysses e la pittura di Boccioni: affinità non dichiarate

Ponendo per la prima volta a confronto Ulysses e alcuni dipinti di Boccioni, questo articolo intende offrire nuove suggestioni al rapporto, mai esplicitamente dichiarato da Joyce ma noto alla critica, tra una delle sue opere più rivoluzionarie e il Futurismo.

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Dal movimento futurista, che egli stesso definiva senza passato né futuro, sterile e suicida (1), Joyce non poteva che voler discostare fermamente, almeno a parole, la sua produzione e, in particolare, Ulysses, che aveva visto i primi bagliori proprio nella Trieste definita dai Futuristi «la nostra bella polveriera» (2), ma che, a detta del fratello Stanislaus, non «gli aveva suggerito nulla. Dei nomi propri forse» (3). L’artificiosità di tali volontà e affermazioni risulta ormai evidente agli occhi dello studioso: i legami tra Ulysses e il Futurismo sono innegabili, nonostante Joyce stesso non volesse renderli manifesti, convenendo con l’amico Frank Budgen «sulla collocazione della propria opera piuttosto in un ambito cubista» (4).

Sui motivi di tale preferenza è facile esprimersi: il Cubismo era senz’altro meno irruente e aggressivo della sua evoluzione italiana, dalla quale Joyce voleva mostrarsi con tanta ostinazione indipendente perché non ne condivideva la furia entusiastica per gli ideali di interventismo. È evidente, tuttavia, che questa preferenza non sia nient’altro che uno specchio per le allodole, poiché, rispetto a quelli con il Cubismo, i legami di Ulysses con il Futurismo sono decisamente più stretti e sostanziali. A sostegno di questo confronto, si rivelerà utile estendere il discorso sul fronte pittorico, per mostrare in che modo il Futurismo sia intimamente e indubbiamente congiunto alla citata opera joyciana.

Il Cubismo rivela al Futurismo la sua più grande innovazione, che il Futurismo, a sua volta, ha saputo rielaborare e fare propria. Entrambi i movimenti, cioè, mirano ad aprire lo spazio bidimensionale – o tridimensionale, grazie alla prospettiva – della tela alla quarta dimensione, il tempo, attraverso l’intuizione di uno sguardo analitico capace di muovere le tre dimensioni tradizionali. Ciò che ne deriva è una visione multipla, dinamica, che sulla tela si traduce nella scomposizione dell’oggetto in più piani prospettici, attraverso la quale risultano simultanee la percezione visiva e quella del movimento attraverso il tempo. I Cubisti erano però più intenti a risolvere i problemi formali legati a questo rinnovamento della rappresentazione che a esplorarne le reali potenzialità; le loro opere sono certamente rivoluzionarie, ma tendenzialmente statiche; in esse il movimento è inteso più come sviluppo di un solido che come spostamento nello spazio, e non è un caso se i soggetti rappresentati più di frequente siano nature morte o ritratti. I Futuristi, al contrario, vedono in questa rivoluzione figurativa l’opportunità per celebrare anche in pittura la «bellezza della velocità» (5): il risultato si concreta in immagini molto più dinamiche, in cui le forme si dilatano l’una nell’altra. Il Futurismo rielabora la lezione cubista anche più in profondità: la forza del movimento non è intesa solo come dinamismo proprio degli oggetti rappresentati, ma anche come quello interno ai soggetti che dipingono o che osservano la tela. Quello che più importa ai Futuristi è che a un movimento “figurativo” corrisponda un movimento “emotivo”: in assenza di tale correlazione l’opera perderebbe gran parte del suo significato.

Tav. 1 – Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 225×150 cm. Collezione privata.

Questi tratti del Futurismo emergono con chiarezza e risultano esaltati in Materia, un dipinto del 1912 di Umberto Boccioni (tav. 1), attraverso il quale è possibile sviluppare sul fronte pittorico un confronto parallelo tra i principi futuristi e alcuni passi di Ulysses. L’attenzione di chiunque si ritrovi di fronte a questo imponente dipinto è immediatamente attratta dalle grandi dita intrecciate al centro, che incombono verso l’esterno, quasi a voler sfondare la tela stessa. Lo sguardo dello spettatore, allora, non può far altro che risalire, oltre alle mani, lungo le braccia, che formano un cerchio sul quale è appoggiata la testa di una donna, la madre del pittore, e da lì seguire le varie linee che ne tagliano la figura congiungendola con le case dello sfondo. A proposito del suo dipinto, Boccioni faceva notare come «i bordi dell’oggetto fuggono verso una periferia (ambiente) di cui noi siamo il centro» (6). Il centro dello spazio figurativo, quello che attrae immediatamente l’attenzione dello spettatore, è dunque ciò da cui sorge l’intera immagine, il fulcro da cui si diffondono linee di forza che descrivono il movimento: pur ritraendo una figura imponente e pesantemente seduta, il dipinto è tutt’altro che statico, perché obbliga lo sguardo di chi l’osserva a muoversi incessantemente per tutta la sua superficie. Si costituisce quindi il doppio movimento – figurativo ed emotivo – cui si accennava più sopra: quello proprio degli oggetti dipinti – oltre il balcone, intravediamo una figura umana e un cavallo, rispettivamente a destra e a sinistra della donna – e quello compiuto dall’occhio dello spettatore, che, vagando per la tela senza trovare quiete, genera una sensazione di vertigine, di visione confusa e disorientata.

Se si parla di centro e di movimento, il rimando a Wandering Rocks, decimo capitolo di Ulysses, è inevitabile. A proposito di questo episodio, Carla Vaglio Marengo scrive: «Wandering Rocks è collocato al centro di Ulysses. La centralità di Wandering Rocks, indicato nello schema Linati come: “Punto centrale. Ombelico” di Ulysses, è da Joyce segnalata […] nell’idea di “labirinto mobile tra due sponde” che compendia errare e consistere […]» (7). Nella sua funzione di ombelico, Wandering Rocks diventa quindi il punto centrale del romanzo, tanto da essere definito come una sua «microimmagine riflessa», in cui i diciotto episodi di Ulysses si specchiano in altrettanti «episodi in miniatura» che, con l’aggiunta di una coda finale, compongono l’intero capitolo (8). Partendo da questo «ombelico», il lettore di Wandering Rocks inizia a percorrere, come i tanti personaggi dell’episodio, le strade di un «labirinto mobile», che non è nient’altro che l’insieme delle vie di Dublino: un percorso che riproduce in scala quello compiuto dall’occhio dello spettatore di Materia lungo le varie linee del dipinto.

Un ulteriore riscontro con quanto detto finora è dato ancora una volta dagli schemi Linati e Gilbert, secondo i quali l’«organo» dell’episodio è il sangue: pompato dal cuore – che, pur non essendo l’ombelico, è dell’uomo l’organo centrale, nonché il più prezioso e intimo – il sangue si irradia in tutto il corpo, dal centro alla periferia, per dirla con le parole di Boccioni. È facile allora comprendere come i personaggi che “circolano” per Dublino non siano nient’altro che il suo “sangue”, la sua anima: più che il loro palcoscenico, Dublino si fa una loro emanazione, plasmata su ogni personaggio che l’attraversa, e di conseguenza personalissima, multipla, scomposta. Mantenendo aperto il confronto con Materia, le case alle spalle della madre del pittore sono dipinte ognuna da un punto di vista differente, risultando anch’esse scomposte su piani prospettici individuali; da ciascuna parte una linea luminosa che, sovrapponendosi alla donna, annulla la scansione dei piani, fondendo e amalgamando la figura con lo sfondo.

La fusione tra corpo e realtà circostante era stata d’altronde teorizzata nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910, firmato, tra gli altri, dallo stesso Boccioni: «i nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano». In ottica futurista si possono dunque leggere alcuni passi tratti dal più cangiante episodio di Ulysses, Proteus – proprio, e non a caso, come il nome della multiforme divinità marina che profetizza a Menelao il ritorno a Sparta – in cui la fusione diventa una vera e propria metamorfosi, che è infatti uno dei simboli negli schemi:

Dio si fa uomo si fa pesce si fa bernacla si fa montagna ammantata di piume. (9)

Il loro cane gironzolava intorno a un banco di sabbia assottigliantesi al trotto, annusando da tutte le parti. In cerca di qualcosa di perduto in una vita passata. All’improvviso, scappò via come una lepre saltellante, le orecchie all’indietro, alla caccia dell’ombra di un gabbiano in volo radente. Il fischio acuto dell’uomo raggiunse il suo orecchio floscio. Si voltò, saltellò indietro, si fece vicino, trottò sulle zampe guizzanti. Su un campo, bruno fulvo un cerbiatto che cammina, a colori naturali, senza corna. All’orlo di pizzo della marea si fermò con gli zoccoli anteriori rigidi, le orecchie puntate verso il mare. Il muso in alto, abbaiò al rumor delle onde, branchi di trichechi. (10)

In Proteus avviene dunque una vera e propria fusione tra ogni campo del reale – divino, umano, animale, vegetale, organico e inorganico – la quale inevitabilmente sfocia in metamorfosi, arrivando persino a farsi una blasfema parodia della trasformazione più elevata, quella che avviene nella transustanziazione. Il concetto di fusione è intimamente legato a quello di metamorfosi anche nel Futurismo: «per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe, ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari» (Manifesto tecnico, 1910). Se si riporta lo sguardo a Materia, nella compenetrazione totale tra figura e sfondo, nessun elemento ha mantenuto inalterati i propri tratti: tutto si è trasformato in una sovrapposizione di forme geometriche.

Nella pittura futurista, l’aspetto formale è dunque un mezzo per portare a compimento i propri intenti, approdando a un risultato ulteriore: la forma diventa essa stessa parte integrante del contenuto. In effetti anche Joyce giunge a esiti simili, poiché ogni metamorfosi che avviene in Proteus non solo è chiaramente legata al carattere dell’episodio – la volubilità dello stesso Proteo – ma al medesimo tempo si riflette nelle varie trasformazioni del linguaggio: il significante viene a coincidere con il significato. Secondo gli schemi di Ulysses, nota Carla Vaglio Marengo, l’arte dell’episodio è la filologia e la parola è uno dei simboli (11). Il linguaggio di Joyce, mutevole e cangiante come la multiforme e mercuriale divinità marina, è politropo come quello di Odisseo, capace di adattarsi a qualsiasi situazione: ogni episodio di Ulysses è infatti caratterizzato da una tecnica precisa, che si plasma sulla realtà con cui di volta in volta viene a contatto. Mirabolanti evoluzioni del linguaggio, dunque, tanto vicine ai folli balzi del saltimbanco futurista da valere a Joyce l’epiteto di “funambolo della parola” (12). Il lettore di Ulysses e lo spettatore di Materia saranno entrambi in balia delle febbrili convulsioni dell’opera e si sentiranno un po’ come un bambino al circo, che, guardando le vorticose acrobazie dei trapezisti, prova una confusa e ineffabile sensazione di vertigine.

Parlando di tecniche formali veicolo di molteplici contenuti, non si può certamente tralasciare l’adozione, in Ulysses, della rivoluzionaria tecnica del monologo interiore, ricavata da Édouard Dujardin, senza la quale Joyce non avrebbe potuto con tanta icasticità riflettere nel linguaggio le numerose trasformazioni proteiformi che costellano il suo romanzo. Come scrive lo stesso Joyce, «I try to give the unspoken unacted thoughts of people in the way they occur. I took it from Dujardin» (13). Attraverso il monologo interiore, Joyce tenta di riprodurre in maniera diretta i pensieri dei propri personaggi nel momento stesso in cui sono formulati. Il fatto che questi siano unspoken e unacted li rende in realtà totalmente privi, almeno in apparenza, di logica, perché non ancora metabolizzati dal conscio: la metamorfosi del cane riportata sopra, che non è altro che uno stralcio dei pensieri formulati da Stephen in Proteus, è un buon esempio di monologo interiore joyciano. Il tentativo di riportare direttamente sulla carta i pensieri dei personaggi così come l’evento esterno li ha generati – prima ancora, dunque, che raggiungano una compiuta formulazione logica e razionale – non è lontano dai propositi di Boccioni perseguiti con La città che sale (tav. 2), un dipinto di un anno precedente a Materia, che, ritraendo anch’esso la madre al balcone, vi può essere legittimamente accostato:

Dipingendo una persona al balcone, vista dall’interno, noi non limitiamo la scena a ciò che il quadrato della finestra permette di vedere, ma ci sforziamo di dare il complesso di sensazioni plastiche provate dal pittore che sta sul balcone: brulichio soleggiato della strada, doppia fila delle case che si promulgano a destra e a sinistra, balconi fioriti, ecc. Il che significa simultaneità d’ambiente e quindi dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri. (14)

Tav. 2 – Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-1911. Olio su tela, 199,3×301 cm. Museum of Modern Art, New York.

Risulta ancora più chiaro, così, come il Futurismo abbia portato la tecnica cubista alle proprie estreme conseguenze, rendendola il mezzo attraverso il quale trasferire direttamente sulla tela le sensazioni del pittore nell’atto stesso di dipingere, proprio come Joyce utilizza il monologo interiore per riferire i pensieri dei suoi personaggi. Comunanza di intenti, quindi, ma anche di risultati: «i dettagli liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri» sono, da un lato, le sfaccettature degli oggetti che hanno perso la loro compattezza, e dall’altro, i disconnessi enunciati dei monologhi joyciani, che altro non vogliono essere che la trascrizione fedele di pensieri appena abbozzati.

Considerando, d’altra parte, la razionalità soggiacente ai dipinti futuristi, tenendo presenti quei pochi confini definiti tra un oggetto e l’altro, che ne consentono non solo la distinzione, ma anche la leggibilità – d’altronde non siamo ancora in ambito astrattista –, la scomposizione di un oggetto in tanti piani prospettici potrebbe essere intesa come la rappresentazione simultanea, sul piano bidimensionale, dei tanti punti di vista alla base del principio di parallasse caro a Joyce. In Materia, la tridimensionalità del volto della donna, per fare solo un esempio, è scomposta grazie all’accostamento di piccoli e fitti piani, che “stendono” sulla tela le sfaccettature di ogni lineamento, così come visto da diversi punti d’osservazione. In effetti, in Ulysses, la visione sul mondo esterno non è mai univoca, ma, al contrario, la realtà è sempre esplorata da punti di vista, se non opposti, decisamente distinti tra loro: la risultante è perciò una realtà cangiante, allo stesso tempo coincidente con la somma delle sue parti e con nessuna di esse.

In Nausicaa – l’episodio che a questo proposito sembra il più evocativo, nei cui schemi come arte figura proprio la pittura – Bloom è osservato principalmente secondo due prospettive, da lontano, attraverso l’occhio idealizzante di Gerty, e poi da un punto di vista più ravvicinato, che ci rivela la sua identità. Attraverso questa doppia visione, lo stesso Bloom ci appare prima un affascinante uomo in nero, poi un uomo comune vestito a lutto. La medesima duplicità di visione si ottiene se, anziché il punto di vista, è l’oggetto osservato a spostarsi. Agli occhi di Bloom, inizialmente, Gerty – già presentata al lettore nella coda di Wandering Rocks sotto un ulteriore punto di vista, in un colorato quadretto incorniciato dagli edifici di Dublino – pare una seducente ed eccitante ninfa seduta su uno scoglio, ma, non appena si alza per raggiungere le amiche ormai lontane, la ragazza rivela un nuovo dettaglio, che turba la percezione iniziale di Bloom: «Stivali stretti? No. È zoppa! O!» (15).

Il lettore immerso in Ulysses, così come i personaggi che vi gironzolano tra le pagine, non arriverà mai a una conoscenza definitiva del dato reale, soggetto com’è a continui mutamenti prospettici; incarnerà semmai, al limite, uno degli infiniti punti di vista attraverso cui accostarsi alla realtà, della quale però non potrà accedere che a una sola faccia; diventerà allora uno dei volti di Visione simultanea – altro dipinto di Boccioni, di un anno precedente a Materia (tav. 3) – che incombono colossali sulla via, nella quale sfilano neri omini privi di identità.

Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911. Olio su tela, 70×75 cm. Wuppertal, Von der Heidt Museum.

A ben guardare, da quei volti traspare una certa supponenza, quasi un sorrisetto di sufficienza, che sembra rivelare la presunzione di poter abbracciare da lì, così dall’alto, la realtà nella sua interezza. Una presunzione che solo lo spettatore del dipinto – o, fuor di metafora, il lettore di Ulysses ormai disincantato e consapevole della propria impotenza – potrà sfatare: per quanto giganteggino sulla strada, quei volti non ne avranno che una visione parziale, limitata al loro punto di vista. E di quella stessa strada, lo spettatore esterno al dipinto avrà a sua volta una cognizione ridotta, essendo anch’egli parte dell’infinito gioco di sovrapposizioni di piani e mutamenti prospettici su cui si fonda, proprio come in un dipinto futurista, la percezione umana.

Chiara Lanzavecchia

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 NOTE

  1. Budgen 1964: 153.
  2. Titolo del manifesto del marzo 1909.
  3. Crise 1967: 19.
  4. Vaglio Marengo 1996: 143. Per i contributi critici circa il rapporto tra Ulysses e il Futurismo, si veda Vaglio Marengo 2006, Ead. 2007, Ead. 2010a, Ead. 2010b.
  5. Marinetti 1909.
  6. Boccioni 1914: 174.
  7. Vaglio Marengo 2010b: 1048.
  8. Si citano qui alcune espressioni utilizzate da Enrico Terrinoni nell’introduzione a Wandering Rocks in Joyce 2015: 803.
  9. Ivi, p. 76.
  10. Ivi, p. 72.
  11. Vaglio Marengo 2001: 291.
  12. Joyce 2015: 13.
  13. Budgen 1964: 92.
  14. Boccioni et al. 1980: 63.
  15. Joyce 2015: 364.

 

BIBLIOGRAFIA

Boccioni et al., “Prefazione al catalogo delle esposizioni di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Monaco, Amburgo, Vienna, ecc.”, in Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del futurismo 1909-1944, a cura di Luciano Caruso, Firenze, Spes-Salimbeni, 1980, vol. 22, pp. 60-68.

Boccioni, Umberto, Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico), Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1914.

Budgen, Frank, James Joyce and the making of «Ulysses», Bloomington, Indiana University Press, 1964.

Crise, Stelio, Epiphanies and Phadographs: Joyce and Trieste, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1967.

Joyce, James, Ulisse, traduzione italiana di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi, Roma, Newton Compton, 2015.

Marinetti, Filippo Tommaso (1909), “Le Futurisme”, «Le Figaro», 20 febbraio.

Vaglio Marengo, Carla, “James Joyce”, in Storia della civiltà letteraria inglese, a cura di Franco Marenco, Torino, UTET, 1996, pp. 131-185.

Ead., “From the «Odissey» to «Ulysses»: Exile, Peregrination, Beyondness”, in Da Ulisse a Ulisse. Il viaggio come mito letterario, a cura di Giorgetta Revelli, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, pp. 285-308.

Ead., “«Noisetuning»: Joyce and Futurism”, in Joyce’s Victorians, a cura di Franca Ruggieri, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 331-354.

Ead., “Joyce e il Futurismo: il corpo, la voce, l’improvvisazione”, in L’improvvisazione in musica e in letteratura, a cura di Giuliana Ferreccio e Davide Racca, Torino, L’Harmattan Italia, 2007, pp. 56-76.

Ead., “Futurist Music Hall and Cinema”, in Roll Away the Reel World: James Joyce and Cinema, a cura di John McCourt, Cork, Cork University Press, 2010, pp. 86-102.

Ead., “Joyce, «Wandering Rocks», tra musichall, teatro sintetico futurista e ‘cinema dell’arte’”, in Comparatistica e intertestualità, a cura di Giuseppe Sertoli, Carla Vaglio Marengo e Chiara Lombardi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 1027-1039.