Barbara, neolaureata in Culture Moderne Comparate, racconta il suo Erasmus a Warwick, cittadina situata nel cuore dell’Inghilterra.
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In questi giorni post laurea di noia e di domande, mi sono messa a fare pulizie in camera mia. Tra i cumuli di polvere e gli scontrini della panetteria ho trovato due cose: il mio “dossier dell’Erasmus”, una busta piena di tutta la carta che ho portato dall’Inghilterra, e il mio diario di quei giorni. In realtà sapevo benissimo dove fossero entrambe le cose, ma la maggior parte del tempo fingo non esistano per paura di quello che rappresentano.
Mi sono resa conto che, in quasi due anni, non mi sono mai davvero confrontata con quello che è stato per me l’Erasmus. Molti miei coetanei hanno mille feste e sbronze da raccontare; io non ho ricordi di quel tipo, ma piuttosto una palla di emozioni contrastanti nel cuore, che ancora non sono stata capace di districare. Immagino che la difficoltà principale sia dare un’idea di cosa sia, un Erasmus: nessuno slogan, nessuna pubblicità, nessuna pagina di diario può davvero spiegare un’esperienza che facciamo in migliaia ogni anno ma di cui nessuno parla mai davvero. Forse perché non si può, almeno non con chi non l’ha vissuto con te o perlomeno come te.
Le uniche persone con le quali riesco davvero a parlarne sono Anna, Annagiulia e Luca: siamo tutti partiti dall’Italia, siamo tutti di Torino, e le nostre strade si sono incrociate in un campus sperduto in mezzo ai prati inglesi, a Warwick. Se non avessi vissuto con loro parte delle mie avventure dubito che il mio Erasmus sarebbe stato altrettanto magico: se non avessi loro oggi, anche se due ormai sono ripartiti per una nuova avventura, non so come farei. Perché loro sanno.
Sanno cosa vuol dire quello che ho scritto nella mia prima pagina di diario: “Mi sento sola. Il cielo fuori è grigio e i prati sono di un verde meraviglioso, e io vorrei solo poter condividere questo paesaggio con qualcuno”. Anche se non hanno preso il mio stesso treno per andare da Londra a Warwick sanno cosa vuol dire essere catapultati in un nuovo Paese, tra nuove persone, in una realtà dove la lingua la impari ogni giorno con fatica. Sanno cosa vuol dire avere dei coinquilini che non ti capiscono, che hanno un bagaglio culturale diverso dal tuo, che non sempre sono aperti al dialogo; sanno cosa vuol dire affannarsi per il campus alla ricerca del tutor, delle aule, dei libri in biblioteca.
E sanno cosa vuol dire combattere ogni giorno con la burocrazia. Si dice che tutti gli studenti universitari siano in lotta con le segreterie, ma andare in Erasmus è un incubo. Nessuno sa davvero niente, tutti hanno informazioni sbagliate; la nostra fortuna è stato il passaparola, non so come sarebbe andata altrimenti. E poi le difficoltà con un sistema scolastico diverso, lezioni più coinvolgenti delle nostre ma più superficiali, lo stupore di fronte alla facilità di alcune cose.
Sfogliando le pagine mi vengono in mente mille piccoli aneddoti, mille esperienze quotidiane: il cinema ridotto per gli studenti, la spesa, i caffè al bar dove nel giro di pochi giorni i baristi italiani ci prendevano in giro perché eravamo troppo chiassose. Il tipo carino dietro al bancone che mette troppa panna nella cioccolata calda e ci regala i Ferrero Rocher a San Valentino. Le corse a lezione, dove il tempo sembrava non passare mai – a meno che non decidessimo di intavolare interessanti conversazioni via chat, ben protetti dagli schermi dei nostri computer. I seminari, gestiti da una ragazza poco più grande di noi, e le infinite discussioni su questo o quell’autore. La nostra noia e lo stupore di fronte alla superficialità di molti interventi. Il confronto con la mole di lavoro italiana, che faceva sembrare i compiti da una lezione all’altra roba da liceo.
Mi ricordo il viaggio a Cardiff, tutti e tre insieme. La pioggia che non finiva più, i biscotti cucinati da Luca, il pranzo al mercato coperto, la Doctor Who Experience. Mi ricordo anche tutte le altre gite che ho fatto, con altri o con loro: Bath, Oxford, Cambridge, le camminate infinite, i mal di testa, mi ricordo tutto. E potrei scrivere pagine e pagine piene di ricordi e di racconti.
Quello che però non riesco a esprimere è l’emozionalità dell’Erasmus. Si sa che non è un viaggio, non è una gita: è vita. Quella vera, quotidiana, fatta di responsabilità e piatti da lavare. Non si può riassumere il dolore quasi fisico che si prova nel lasciare una casa, partire, trovarne un’altra, e doverla abbandonare. Non ci sono parole per spiegare come una nuova lingua si ricavi uno spazio nel cervello e diventi terribilmente difficile farla convivere pacificamente con quella di partenza. Non c’è un modo per spiegare come sedermi con Francesco in riva al lago vicino a casa, gli ultimi giorni prima di partire, sia stata un’esperienza più mistica che reale. Come faccio, a parole, a rendere anche una vaga idea di come mi sono sentita quando sono arrivata e come ero disperata quando sono partita, quando ho abbracciato i miei coinquilini che mi guardavano un po’ inteneriti e un po’ imbarazzati? Come potrei descrivere le mille emozioni che mi hanno accompagnata da quando sono scesa dall’aereo a quando ci sono risalita? Come spiegare i cambiamenti, le nuove consapevolezze, il senso di libertà e il peso della realtà che derivano dall’Erasmus?
Semplicemente, non posso. Posso solo togliere la polvere dal mio dossier, dai miei ricordi, e sfogliare di tanto in tanto il mio diario consapevole che le parole che ci sono scritte non rendono giustizia a nulla di quello che raccontano.